E se Lady Gaga fosse nata in Italia?

Oggi parlo della musica pop. Di quel pop tanto screditato e ritenuto, a torto, un genere secondario e di poca e trascurabile importanza. “Pop” significa popolare. E’ tutto quello che passa attraverso l’interesse e la condivisione della gente comune. “Pop” è ciò che è alla portata di ognuno di noi, ciò che vende e si fa strada attraverso radio e televisione e, in maniera ormai sempre più massiccia, internet e social network. Anche il cantautorato è pop, quando e se passa attraverso determinati canali. Spesso, per dar credito al luogo comune che lo racconta come un genere inferiore o per una frettolosa massificazione, lo si pone ai margini della musica e dell’arte stessa. In realtà, com’è giusto osservare per qualsiasi cosa ci circondi, c’è un pop fatto bene e uno fatto male, di poco conto e meramente commerciale. E, ad essere discutibile, non è la vendita di un lavoro, ma la scelta di costruire (e non creare) un prodotto (e non un progetto) con una finalità che è solo (e soltanto) commerciale. Questo è negativo: il pressapochismo di chi lavora male e la negligenza di chi uniforma tutta la musica che arriva immediata e prepotente nella nostra quotidianità.

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Il vero limite del pop italiano è, a dire il vero, la mancanza di un’alternativa alla canzone melodica, che lo contraddistingue da sempre. E’ riuscito a guadagnarsi una propria dignità ed anche una certa credibilità,  infatti, solo questo genere. Pensiamo, per un attimo, ad un’artista internazionale come Lady Gaga, eclettica ed eccentrica cantautrice americana che in pochi anni si è aggiudicata lo scettro di regina del pop mondiale. Ha costruito, e continua a farlo con successo, la sua carriera sul bisogno di ridefinirsi i confini e l’immagine. Ormai da anni, si mostra al suo pubblico con un look sempre stravagante e sensazionale, senza che mai alcun dettaglio sia lasciato al caso. Scrive, compone, interpreta la sua musica dance e si racconta attraverso quello che indossa, attraverso le sue performance che non sono mai semplici esecuzioni, ma spettacoli a tutto tondo, in cui varie forme d’arte si incontrano e si incastrano perfettamente. Ma se Lady Gaga fosse nata in Italia, avrebbe avuto il travolgente successo che l’ha portata, in pochissimi anni, a calcare i palchi più importanti di tutto il mondo? O sarebbe stata giudicata un fenomeno da baraccone e destinata ad  un drastico e immediato declino con annesso oblio?

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Cosa manca in Italia per permettere ad un pop innovativo e internazionale di farsi strada? Forse la lacuna più evidente è l’incapacità dei nostri artisti di mettersi in discussione e cambiare, pur rimanendo fedeli a se stessi. Chi ci prova, finisce per snaturarsi. Chi non ci prova affatto, il più delle volte si ricicla e si ripete, fino a diventare una triste e sbiadita caricatura di se stesso. Pochi sono stati i cantanti capaci di reinventarsi e rimettersi in gioco ad ogni occasione, correndo il rischio di perdere consensi e approvazione; perché, si sa, il pubblico spesso preferisce riconoscersi e sentirsi confortato da chi somiglia sempre e soltanto a se stesso, piuttosto che chiedersi se sia vero quello che vede e ascolta. Meritano di essere citate alcune donne della nostra musica: tra le signore della canzone italiana, la trasformista per eccellenza, Anna Oxa. Sensuale e travolgente, ma anche introspettiva e profonda, ha saputo fare, del cambiamento, il proprio marchio di riconoscimento. Da non sottovalutare, come più volte e superficialmente è stato fatto, l’ex duo canoro composto dalle sorelle Paola e Chiara Iezzi, cantautrici, produttrici e interpreti innovative e coraggiose, capaci di portare la musica dance in un panorama musicale, quello italiano, da sempre tradizionalista e poco incline a dare manforte ad un pop come il loro, moderno e internazionale, anche se fatto in Italia.
Sembra che il nostro Paese concepisca l’innovazione come un tradimento nei confronti della straordinaria tradizione di cantautorato che, nei decenni, ci ha fatto grandi nel mondo. Se da una parte ci sono i pilastri della nostra invidiabile storia d’autore, dall’altro non mancano le grandi e talentuose interpreti di quelle parole e melodie. Nel mezzo, però, sembra esserci un vuoto di modernità e ricerca. Sarebbe quantomeno contradditorio e controproducente fare, di questa disamina, una massificazione; tuttavia, capita spesso di osservare un notevole appiattimento e il nostro glorioso passato, più che un incentivo per spingersi a fare meglio, sembra un ansioso e confortante traguardo a cui tornare.

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In questo contesto, pone le basi la ventennale carriera della nostra artista più famosa al mondo: Laura Pausini. La cantante romagnola ha fatto, del desiderio di non cambiare, un manifesto chiaro e ha deciso di cantare la propria coerenza anche nel suo ultimo brano, “Limpido”, che anticipa un disco che raccoglie i suoi più grandi successi, dal 1993 ad oggi. Diretta, determinata e irremovibile ha scelto di non sperimentare nuovi suoni, né di staccarsi mai troppo dal pop melodico che l’ha resa famosa in tutto il mondo. Si è sempre mostrata al suo pubblico con un aspetto confortante e semplice e, fatta eccezione per i cambiamenti degli ultimi anni, che l’hanno vista ballare sul palcoscenico e lasciare spesso spazio a straordinari effetti speciali, ha sempre preferito mettere al centro dell’attenzione la sua voce, a discapito dell’elemento “spettacolare”.
C’è chi ritiene, la sua, una mossa strategica per non perdere l’affetto del pubblico; chi, invece, ama la sua capacità di restare nei propri panni senza sbavature. Coerenza o auto plagio? A questa domanda, ognuno potrebbe rispondere a suo modo e nessuno avrebbe la certezza di aver detto la cosa giusta.
Ma io mi chiedo, assumendomi la responsabilità di quello che dico: Laura Pausini avrebbe avuto lo stesso successo se fosse nata in America?

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