Festival di Sanremo: cosa è diventato oggi?

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Chi si ostina a chiamarlo “Festival della canzone italiana”, non ha seguito Sanremo negli ultimi dieci anni (poco più, poco meno), o è un nostalgico. A Febbraio, parte la sessantaquattresima edizione di un programma televisivo che mescola vari ingredienti: la musica, la moda, la politica, la comicità, il sociale. È uno spettacolo che, in maniera assai plateale, si fa specchio della nostra Italia. E, ad un’attenta osservazione, ci accorgiamo di quanto sia cambiato negli anni, di come si sia adattato alle richieste di un pubblico sempre più esigente e difficilmente accontentabile. Il Festival, nel tempo, è diventato sempre meno rigido, ha modificato le proprie regole di partecipazione, ammettendo alla gara anche artisti non ancora sufficientemente conosciuti dal grande pubblico e, tra un brano e l’altro, ha aperto le porte al cabaret e alla comicità. “Non c’è più il Sanremo di una volta”, sento dire, spesso. “Non c’è più l’Italia di una volta”, rispondo. Se non ci fosse il contorno, sempre più ricco e variegato, dieci milioni di persone, per cinque sere consecutive, sarebbero disposte a guardare una diretta di tre ore, concentrandosi solo sulle canzoni in gara? Se non ci fosse l’elemento di disturbo, l’argomento da dibattito, l’ospite scomodo o la tematica inusuale, la gente continuerebbe a seguire un programma di sole canzoni inedite, pur sapendo di poterle scaricare da internet, riascoltare su youtube e rivedere nel sito ufficiale della trasmissione? È il sistema che detta le sue spietate regole. E il Festival deve prenderne atto, deve rispondere efficacemente ad un pubblico che, spesso, si fa condizionare dalle leggi che detta chi ci convince che ci piaccia quello che ci piace. È un discorso certamente lungo e complicato. È una matassa aggrovigliata da cui bisogna venire a capo. E, per farlo, basta osservare i cantanti che hanno preso parte alla gara negli ultimi anni. Non sono mancate le voci di giovani promesse della musica provenienti dai talent show. Lungi da me voler generalizzare o addossare loro una colpa -di fatto- sterile, ovvero quella di aver scelto la televisione per realizzare il sogno di fare musica. Il fatto è che, il più delle volte, arrivano al Festival senza un’adeguata preparazione, si esibiscono ancora impauriti e acerbi e cantano pezzi che esistevano già prima che iniziassero la loro carriera. Questo vuol dire che il loro brano sarebbe stato inciso da un altro, se le cose fossero andate diversamente. Questo, più semplicemente, significa che sono giovani esecutori di un percorso già scritto che li vede, solo un anno dopo, in serie difficoltà e alla ricerca dell’attenzione che, in un primo momento, gli era stata concessa. È successo che alcuni cantanti, un mese dopo la vittoria nel talent a cui avevano partecipato, si trovassero catapultati sul palco di Sanremo. Bruciare le tappe è un errore che si paga col tempo ma, a risentirne nell’immediato, è proprio il Festival, che ci rimette in qualità e credibilità.

SANREMO: FISCHI E TRICOLORI PER PUPO E IL PRINCIPE

A calcare, inoltre, il palco dell’Ariston, non mancano gli artisti che, supportati da una potente casa discografica, devono risollevare le proprie sorti e quelle di un album andato male in classifica. Quindi, più che dalla volontà di farne parte, sono spinti da un contratto da rispettare e dai numeri, spregiudicati e inflessibili, che etichettano come “flop” il loro ultimo lavoro. Perciò, scendono in questa grande arena, che somiglia ad un tritacarne, e si rimettono in gioco con una ristampa del loro disco, sperando di trovare un posto di maggiore dignità nella chart, vista la grossa esposizione mediatica che dà una kermesse così importante. Negli ultimi anni, tuttavia, non sono mancati nemmeno alcuni “personaggi”, che non di rado hanno sostituito i musicisti pur non avendone il talento e l’esperienza artistica: si tratta di schegge impazzite nei palinsesti della televisione italiana che, col tempo, sono diventati dei fenomeni capaci di attirare l’attenzione e la curiosità della gente (ne è un esempio il principe Emanuele di Savoia, che ha partecipato a Sanremo nel 2010).

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Da non sottovalutare, inoltre, il pericolo di un insuccesso sul palco dell’Ariston. Si tratta di una vera e propria arma a doppio taglio, specie per quegli artisti che hanno già avuto un buon successo e riescono a vendere un numero considerevole di cd. In una recente intervista, Laura Pausini ha raccontato: “A Sanremo non vado perché le cose mi vanno bene e non posso rischiare che un giovane arrivi davanti a me e che i giornali scrivano “il flop della Pausini”. Inutile girarci intorno, è questa la verità”. Questo è certamente un pensiero condiviso da molti artisti, anche se i più non hanno il coraggio di dirlo pubblicamente. Dunque, in un programma in cui il televoto è nelle mani dei telespettatori, chi rischierebbe di doversi accontentare di una posizione mediocre e di essere massacrato dai giornalisti e dalla critica? Senza considerare che a votare maggiormente tramite sms sono i giovanissimi, i quali senza dubbio non abbandonano il/la proprio/a beniamino/a appena uscito/a da un talent show. E quindi, la Pausini, Ramazzotti, Vasco Rossi, Zucchero o Giorgia (tanto per citare alcuni nomi) potrebbero mai pensare di passare attraverso questo tritacarne (e ripropongo volutamente questo termine) per cinque serate di visibilità?
Lo stesso ragionamento, o perlomeno uno non troppo dissimile, vale per i nostri cantautori e per le nostre cantautrici: andare al Festival con un pezzo che richiede attenzione e rischiare di essere messi in ombra da un brano pop, immediato e accattivante, o, ancora peggio, essere vittime di giudizi frettolosi e disattenti, soltanto perché si è abituati ad una canzone popolare e diretta? Il gioco vale la candela?
Tra i grandi assenti, infine, non si possono non menzionare tutti quei cantanti che non hanno un contratto discografico con un’etichetta che possa dar loro anche solo la possibilità di essere presi in considerazione per un’eventuale partecipazione. E quindi vengono fatti fuori senza essere ascoltati, pur avendo un brano con tutte le carte in regola per diventare un successo. Ci fanno credere, il più delle volte, che sia il direttore artistico con la sua squadra di lavoro a scegliere le canzoni. Ma, di fatto, la scelta avviene entro una ristretta cerchia di proposte. E le proposte sono quelle supportate da una major potente. Ecco una di quelle regole, forse la più infelice, che detta il sistema. Ci convincono che quello che ci viene offerto sia tutto ciò che c’è. Ma in realtà, quello che vediamo, è quello che fa guadagnare maggiormente. Al resto, tocca prendersi il poco spazio che gli viene consesso, se gli viene concesso. Il denaro che si mischia alla musica è un fatto che dovrebbe indignare chiunque, perché la musica è di tutti, non di chi sceglie per noi, non di chi le manca di rispetto e, di riflesso, non rispetta il pubblico. Fino a quando artiste di grande valore come Mariella Nava o Carmen Consoli, cantautrici di spiccato talento, mancheranno da quel palcoscenico e con loro Paola Turci, Marina Rei, Silvia Salemi, Gerardina Trovato, Alice (e l’elenco è ancora lungo e sconfortante) il Festival di Sanremo non riuscirà a ricucire lo strappo, ormai evidente, tra l’elemento spettacolare e la qualità, che negli anni è stata spodestata dall’auditel e dal sistema (termine all’apparenza innocuo, ma che nasconde tutto il marcio del nostro presente artistico).

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