Mia Martini: quando si muore di dolore

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“Sarà che questo mondo ha rovinato tutti i sogni miei. Se non avessi te, che sei innocente, giuro me ne andrei. Ed oltre il mondo volerei, per non tornare – credimi – sola. Per sentirmi libera, finalmente libera, sola io con la mia anima. Ma chi piangerà, lo so, sarò io. Io che resterò sola. Resterò sola.”,così cantava una giovane e malinconica Mia Martini, nel 1972, nella sua “Donna sola”. Negli occhi le si leggeva già la grinta e il tormento di una donna dal talento straordinario, ma dal vissuto sofferto e invadente. E quelle parole profetiche raccontavano già il suo destino, la speranza e la consapevolezza di doversi ritrovare, suo malgrado, da sola a fare i conti con un passato ingombrante e un presente restio a ridarle indietro qualcosa. Le restava la voce, la sua, intensa e struggente, fino a consegnarla con assoluta devozione e sincerità a chi l’ha seguita, a chi non ne ha giudicato la morte, ma celebrato la vita. Ed è rimasta, perché Mia Martini è un passato luminoso per la nostra musica, una conferma appagante per il presente e un’imprescindibile certezza per il futuro. Non è da imitare, perché si rischierebbe di vivere all’ombra di una musicista enorme per talento e carriera; è da conoscere.
Un tratto distintivo di Mia Martini è stata la coerenza. Questo l’ha reso grande: cantare Fossati, De Gregori, De Andrè, e saper restare sempre se stessa. Il suo stile era inconfondibile ed anche le sue interpretazioni, sempre autentiche e sentite. L’espressione del suo volto, quando cantava un pezzo, ne restituiva la bellezza. Non è scontato che accada; non di rado, succede che un’interpretazione scialba e meccanica non renda giustizia alle parole, alla scelta di metterle insieme e al retrogusto che vogliono lasciare. Ogni volta che entrava in una canzone, prima in punta di piedi e poi prepotentemente, sembrava indossare i suoi stessi panni. Sembrava ricongiungersi con quello che le apparteneva già, anche se quei testi erano scritti da altri; anche se lei, di quelle canzoni, ne era una semplice esecutrice.
“Ti avrei rubato la dolcezza, per disegnarla sul mio viso. E avrei voluto respirare solo un momento accanto a te. Quante volte lo lascerei. Sai quante volte io lo inventerei. Io porto i segni del suo dolore e lui respira, seguendo il ritmo del mio cuore. E quante volte, tra le mie mani, lui nasce ancora. E ogni volta sembra un po’ più grande”. Non solo interprete, ma anche autrice, come nell’appena citata “Quante volte”. Negli anni, Mia Martini si è rivelata un’artista completa, sempre più disposta a farsi carico delle proprie fragilità e a raccontarle, con coraggio e determinazione.

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Ma dalla cima più alta del successo, il declino si fa più disastroso. E a Mia tocca pagare le colpe dell’ignoranza più meschina. Le puntano il dito contro, la etichettano, dicono porti iella. E lei si fa da parte. “La mia vita era diventata impossibile”, racconta qualche anno dopo, “qualsiasi cosa facessi, era destinata a non avere alcun riscontro e tutte le porte mi si chiudevano in faccia. C’era gente che aveva paura di me, che per esempio rifiutava di partecipare a manifestazioni nelle quali avrei dovuto esserci anch’io. Mi ricordo che un manager mi scongiurò di non partecipare ad un festival, perché con me nessuna casa discografica avrebbe mandato i propri artisti. Eravamo arrivati all’assurdo, per cui decisi di ritirarmi.”. A nulla o a poco serve sapere chi le abbia messo così ferocemente i bastoni tra le ruote, chi abbia scelto volontariamente di massacrarla fino a farle maturare la decisione di ritirarsi dalle scene. L’unica certezza è rendersi conto di quanto disumano si sia rivelato il suo mondo, lo stesso che era stato, per Mia, un approdo sicuro dopo un’infanzia e un’adolescenza burrascose. Gli anni ottanta sono stati, dunque, per lei, anni di solitudine, vissuti in disparte a masticare un dolore invasivo, senza potersi rimproverare un errore concreto. La sua colpa più grande, forse, era il suo stesso talento, l’essersi affermata e l’aver conquistato il pubblico. E questo, probabilmente, a qualcuno non andava bene. O a più di qualcuno.
E’ il 1989, quando un destino inaspettato si compie, nonostante le condizioni sembrassero avverse ad una rinascita. E questo destino si chiama “Almeno tu nell’universo”. Questo pezzo di straordinaria bellezza, che è rimasto nel tempo uno dei più grandi successi di Mia, viene presentato al Festival di Sanremo di quello stesso anno. Un destino inaspettato, sì, quasi complice. Questo brano, infatti, era stato scritto da Bruno Lauzi e Maurizio Fabrizio quasi vent’anni prima, nel 1972, e depositato nel 1979. Perché sia rimasto inedito per quasi due decenni, è presto detto: lo stesso Lauzi voleva che a cantarlo fosse Mia e solo lei. Quindi, nonostante in un primo momento fosse stato proposto a Mietta, alla fine sarà Mia Martini a cantarlo all’Ariston, dove si aggiudicherà per la seconda volta il premio della Critica (che dopo la sua morte prenderà il suo nome). Questa partecipazione segna un risveglio faticoso ma sperato, dopo un periodo di grande sofferenza e solitudine. Dopo un periodo che, a detta di molti, aveva definitivamente messo spalle al muro l’artista calabrese. “Erano sette anni che non potevo più fare il mio lavoro”, racconta Mia, “per cui in quel momento ho sentito ‘fisicamente’ questo abbraccio totale di tutto il pubblico, l’ho sentito proprio sulla pelle. Ed è stato un attimo indimenticabile.”
Seguono anni importanti, nuove partecipazioni al Festival di Sanremo (nel 1990 propone “La nevicata del ‘56”, scritta per lei da Franco Califano; nel 1992, l’intensa “Gli uomini non cambiano”; calca quel palcoscenico per l’ultima volta, nel 1993, con “Stiamo come stiamo”, in duetto con la sorella Loredana Bertè) e un progetto, “La musica che gira intorno”, interrotto a causa della sua morte improvvisa. O annunciata. O raccontata in tanti brani struggenti che, nell’arco di più di trent’anni di carriera, l’avevano messa a nudo, lasciandoci scoprire il suo animo combattivo e delicato, allo stesso tempo. Non mi interessa indagare la sua morte o sapere se sia stata una scelta o una triste condanna, l’ultima, attraverso cui passare per diventare un mito. Lo sciacallaggio intorno alla sua scomparsa c’è stato e continua ad esserci, prepotente. E se la verità non ci è dato saperla, resta la musica. E Mia Martini, come poche altre artiste, è riuscita a consegnarci un percorso fedele, che l’ha vista crescere, soffrire e rinascere dalle proprie sconfitte. La sua stessa vita si è fatta musica, a volte di speranza e, qualche volta, di triste consapevolezza. Ma non è mai stata una bugia. Per questo resterà una delle pagine più belle e commoventi della musica italiana; per questo è rimasta nel cuore di chi, la più esauriente risposta, l’ha trovata nella sua voce e nelle sue canzoni.

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2 pensieri riguardo “Mia Martini: quando si muore di dolore

    1. Non conoscevo la storia ne la vita di Mia Martini
      La cosa più bella è il suo sguardo che ti porta diritto giù nel profondo della sua anima ed è li nel profondo che vedi la fragilità espressa da una forza tranquilla.
      È un esempio di come la solitudine e il dolore che ne derivano possono trovare un giusto equilibrio nell’arte e nel suo caso nella musica e nelle parole
      L’intensità delle sue espressioni e della sua mimica, quando canta, sono in senso letterale una carta di identità di Mia

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