Un’Italia al passato che dimentica il passato

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Quante volte capita di ascoltare qualcuno chiedersi “perché non ci sono più i cantanti di una volta?”. Tante, come tante sono le occasioni sprecate a rimpiangere un passato che è vivo e sta bene, ma è accartocciato nelle mani di chi ne fa nostalgia e rimpianto. Questo atteggiamento contraddittorio, che vede il pubblico lodare gli artisti di ieri a discapito di quelli di oggi, ingrigisce il panorama musicale italiano per due motivi: se, da una parte, la gente critica negativamente i nostri artisti attuali, tuttavia, di quelli del passato, ricorda solo ciò che è stato, incurante di quello che può ancora essere. La sconfitta, dunque, è doppia: il presente è costretto a subire il pesante confronto con gli anni ‘60/’70/’80, uscendone sconfitto; il passato resta un termine di paragone, come se non avesse più nulla da dire e dare.

“Nessun’altra artista sarà grande come lo è stata Mina”, capita di sentir dire. E, distrattamente, si accetta quel verbo al passato (“è stata”) come se Mina non fosse tuttora artisticamente e, quindi, discograficamente viva. La tigre di Cremona pubblica, con cadenza annuale, dischi di inediti e di cover di grande qualità. Eppure, a parte una fetta di pubblico affezionata alla sua straordinaria storia e costante ricerca, gran parte della gente sottovaluta o, ancor peggio, snobba i lavori di una delle signore della nostra musica. E, di lei, restano “Se telefonando”, “Parole parole”, “E se domani”, come se tutto il resto fosse trascurabile. Sembra che il passato sia costretto a restare vincolato nel proprio recinto, glorioso ma stretto, senza potersi esprimere. Qual è, quindi, il senso di elogiare i tempi d’oro se quei tempi, più consapevoli e maturi, si offrono a noi che non ce ne interessiamo?

O, forse, è meglio dire che non ce ne accorgiamo? Complice lo spazio ormai esiguo, o quasi assente, che gli viene concesso da parte dei media, spesso alcuni progetti discografici passano sotto silenzio e, a goderne, è una nicchia ristretta e scrupolosa. Viene da chiedersi perché le radio scelgano di non farci ascoltare i nuovi brani di artisti che hanno alle spalle una carriera di quarant’anni o più. E la risposta, forse istintiva ma condivisa, è che il presente si vende più facilmente, è immediato l’interesse del pubblico e il prodotto in questione, fresco e appetibile, è un rischio quasi nullo. Questa, sebbene possa sembrarlo, non è una condanna ai cantanti che, oggi, trovano consensi da parte delle radio e spazio nei pochi contenitori televisivi rimasti. E’ una condanna, piuttosto, a chi dimentica. O a chi, più spesso, ricorda una parte di una storia lunga mezzo secolo.

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Non è difficile notare come oggi, rispetto a prima, tutto si consumi con una velocità quasi esasperante. E la musica non ne è un’eccezione, ma un’incredibile conferma. Sembra che, prima ancora di riuscire ad affezionarsene, ci si stanchi delle canzoni che ci vengono proposte e si cerchi, quasi convulsamente, dell’altro. Merito o, più propriamente, colpa dei social, dove il trend ha soppiantato il gusto; dove, in poche ore, si raggiunge il traguardo e, con la stessa fretta, l’anonimato. Quando qualcuno dice “le canzoni di oggi non sono destinate ed essere ricordate”, sta superficialmente dicendo che siamo un tempo che non si fa ricordare, perché noi stessi dimentichiamo e, talvolta, ignoriamo ciò che ci circonda. Perché, senza accorgercene, diventiamo vittime della “tendenza” di Twitter, della pagina consigliata da Facebook, della scelta commerciale e cauta delle radio. Non resta che cercare, usare compiutamente internet, che può diventare una straordinaria enciclopedia; non ci resta che scegliere di non essere vittime del sistema, che elogia Patty Pravo, ma non ci fa ascoltare i suoi nuovi pezzi; che ci mostra una giovane Ornella Vanoni, ma non ci dice che è uscito il suo ultimo disco, “Meticci, io mi fermo qui”, ultimo non solo cronologicamente; che ci ricorda le straordinarie doti d’autore di Califano, ma solo dopo la sua morte.

In Italia, dunque, è necessario morire per essere riconosciuto all’unanimità come parte di una storia artistica così prestigiosa da averci fatto grandi nel mondo? Per essere al top del trend di Twitter, bisogna essere tre metri sotto terra? Sembra capiti questo, nel nostro Paese. Sembra che sia obbligatorio morire per rinascere. E, a questa incongruenza evidente, nessuno sembra far caso perché, in quel momento, il sistema ha scelto di ricordarsi della grandezza dell’artista ormai scomparso. E il pubblico se ne fa complice. Ed ecco che le radio ci fanno riascoltare pezzi datati, che le case discografiche si mobilitano per pubblicare “best of” o dischi inediti rimasti nel cassetto, perché nessuno sapeva (o voleva) più dare fiducia all’artista scomparso di turno. Ed ecco che, nelle classifiche di iTunes, in poche ore, si raggiungono i primi posti con estrema facilità; Facebook si riempie di immagini commemorative e internet piange un personaggio fino ad allora trascurato, che sembra aver trovato dignità solo uscendo di scena.

Questo ci insegna il nostro tempo: il passato è un termine di paragone per screditare il presente; il presente fa fatica ad imporsi perché non sa (non può e, soprattutto, non deve) reggere il confronto. E, tra nostalgici scontenti e giudici inflessibili, perdiamo di vista tutta la musica che aspettiamo di conoscere solo dopo la morte del suo cantante. Perché, si sa, in Italia il ferro si batte finché è… morto.

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