Festival di Sanremo, era meglio prima?

1

Parto da una premessa: in Italia, tutto si risolve sempre con un confortante e statico “era meglio prima”. E, si sa, quando la tradizione si fa nostalgia e, qualche volta, persino rammarico, andare avanti diventa quasi un fatto inusuale e straordinario (nel senso di non ordinario). Il “nuovo” è costretto a fare i conti col “vecchio”, con ciò che ormai è consumato, ma risplende nel ricordo di chi l’ha vissuto, nell’immaginario di chi ne ha sentito parlare e nella memoria di un Paese fermo allo splendore di un tempo che, di fatto, non è possibile replicare. E quindi cosa scelgono di fare gli italiani? Guardano al futuro, cercano il passato e s’indispettiscono in entrambi i casi, salvo poi farci l’abitudine, qualsiasi sia l’esito, per pigrizia o per negligenza. Questo preambolo, certamente generico, si presta bene a (quasi) tutti gli ambiti; e la musica, motivo di vanto per la nostra Italia, non ne è esente.
La prima, feroce critica mossa al Festival di Sanremo di quest’anno, il meno visto ma certamente il più contestato degli ultimi due decenni, ha riguardato i brani, gli artisti e la mancanza, nel cast, di nomi storici e d’impatto. E il vero tormentone, alla fine delle cinque serate, non è stato il motivetto orecchiabile di qualche pezzo in gara, ma la frase già sentita, rispolverata e proposta annualmente che recita “nessuna di queste canzoni verrà ricordata”. Cosa manca a questi brani, che invece avevano quelli di vent’anni o trent’anni fa? È banale e sbrigativo rispondere dicendo che i tempi sono cambiati? Forse si. E, forse, è anche il caso di guardarci intorno e ammettere che siamo noi, per primi, ad essere diversi. E Sanremo si è adeguato al suo pubblico. Il Festival è lo specchio di quello che siamo, di quello che stiamo vivendo e, soprattutto, di quello che non sappiamo di volere, ma rincorriamo freneticamente. E questo tempo che viviamo, che ci offre e ci toglie tutto, ci vede andare incontro alla gloria e all’insoddisfazione, senza nemmeno accorgercene.

2

Andiamo con ordine, partendo dalla realtà che ci circonda. Fino all’avvento dei talent show, eccezion fatta per rare e fortunate eccezioni, Sanremo era l’unica occasione per scoprire nuovi talenti, l’unica occasione concreta per aggiungere uno o più nomi all’enorme e variegato calderone degli artisti italiani. Basti pensare agli anni novanta: “Sanremo giovani” ha fatto conoscere al grande pubblico Laura Pausini, Giorgia, Andrea Bocelli e ancora Alex Britti, Syria, Paola&Chiara, Irene Grandi e altri nomi importanti che hanno scritto e continuano a scrivere pagine convincenti della nostra musica. Al Festival, si accostava la certezza che nuove voci sarebbero state scoperte e che altrettante, già note e affermate, si sarebbero proposte in gara, senza snobismi o strategie di marketing. Oggi è cambiato che, per i giovani, esistono molte più possibilità per farsi conoscere. E persino i vari “Amici”, “X Factor” o “The voice” sembrano superati: il web inizia inesorabilmente a prendere il loro posto e la dimostrazione più inequivocabile ci viene data da Rocco Hunt, vincitore del Festival nella categoria “Nuove proposte”, che, prima ancora di partecipare a Sanremo, era già un personaggio affermato su Internet, contando oltre trecentomila fans nella sua pagina ufficiale di Facebook. Il secondo, grande e affatto trascurabile cambiamento riguarda i “big”: sempre più spesso, si tratta di artisti che cercano un rilancio o che ripropongono un disco che, alla sua prima pubblicazione, non ha venduto il numero di copie sperato; artisti che, senza passare attraverso la kermesse, non avrebbero avuto la stessa attenzione da parte del pubblico e della critica.
Spesso il pubblico si chiede perché, in gara, manchino i “grandi nomi”, sottintendendo, con quest’appellativo, i cantanti che raggiungono i vertici delle classifiche e, fatto ancor più importante, riescono a restarci per mesi. La risposta è evidente e sotto gli occhi di tutti: un artista affermato, che vende quanto basta per dirsi al riparo dalla pericolosa e sempre in agguato nomea di “artista flop”, rischierebbe di finire in fondo ad una (discutibile) classifica e andare in pasto alla feroce e, spesso, superficiale critica di gente comune (che fa, dei social network, il proprio trono), stanchi addetti ai lavori e giornalisti improvvisati? La risposta è “no”, senza troppi giri di parole.

3

È il caso, ora, di parlare della realtà che ci appartiene più da vicino. Il discorso si fa più generale e riguarda, più che quello che vediamo, il nostro modo di guardarlo. E il primo termine che mi viene in mente, senza riflettere se sia un azzardo o una giusta intuizione da cui partire, è uno: insoddisfazione. Il popolo italiano è (giustamente) insoddisfatto. E questo sentimento di rabbia, che diventa facilmente repulsione, è un grido (o più spesso un rumore) che disturba ma non smuove nulla. E la rivoluzione, che scoppia e si spegne ad ogni nuovo trend sui social, serve a fare da contorno a ciò che la realtà propone, ma non la cambia. Piuttosto, tutto diventa notizia, le lamentele sono motivo di dibattito, le critiche esercizio di retorica. Ma, di fatto, tutto resta com’è. Di fatto, se ne parla e, di conseguenza, è comunque un successo.
Non c’è più il Sanremo di una volta? No, non ci sono più gli italiani di una volta. Il Festival è vivo e vegeto, si è solo adeguato al suo pubblico. E prova, ogni anno, da qualche tempo a questa parte, a sopravvivere a chi vuole gli artisti storici ma critica Gino Paoli “perché è vecchio e farebbe bene a starsene a casa”; a chi non vuole la valletta sexy e muta, ma critica la Littizzetto perché “parla troppo e dice sempre le stesse cose”; a chi vuole dei cantanti nuovi, ma critica i Perturbazione perché “sono degli sconosciuti”; a chi “non lo guarderò perché non mi piace”, ma passa un’intera settimana a denigrarlo e ad accentuarne i difetti, sui social, mentre un tempo ci si limitava a spegnere la televisione.
Siamo un popolo di critici senza grosse ambizioni, se non quella di essere effimeri protagonisti di un retweet. Ma ogni giudizio deve essere seguito da una soluzione, perché abbattere una casa, forse discutibile nell’aspetto ma pur sempre conseguenza di un lavoro lungo e faticoso, per poi addormentarsi sulle macerie, è un danno che pagheremo noi, per primi. La frase “queste canzoni non si faranno ricordare” risulterà sempre fuori luogo, finché non smetteremo di essere giudizi implacabili che si cullano nella convinzione che “prima era meglio”. Prima era semplicemente diverso, perché gli italiani erano diversi.

Share on FacebookShare on TwitterShare on Tumblr

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.