Suor Cristina e altri fenomeni, casi umani e casi disperati

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Una delle prime frasi che mi sia capitato di leggere, dopo la partecipazione di Suor Cristina alla seconda edizione di “The Voice of Italy”, è stata “che sia una suora o no, che importa! È soltanto una donna che ha esternato la propria gioia di vivere!”. E mi sono chiesto, sorridendo tra me e me per quel mio pensiero istintivo e –forse- malizioso, “se non fosse stata una suora, avreste notato la sua gioia di vivere?”. E mi sono dato persino una risposta, immediata e convinta: no. Una voce certamente intonata e coinvolgente, come quella della venticinquenne siciliana, avrebbe portato alle lacrime un rapper affermato come J-Ax, con una storia alle spalle lunga due decenni, se non avesse indossato l’abito da suora? Ci sarebbe stata la standing ovation da parte del pubblico? Avrebbe superato, in fatto di visualizzazioni, Psy, altro (discutibile) fenomeno che ha fatto impazzire il mondo intero con la sua “Gangnam Style”? Ancora una volta la (mia) risposta è no. È ormai un dato di fatto: senza un evento che straripi dagli argini della consuetudine come un fiume in piena, senza un personaggio sopra le righe o un fenomeno da baraccone da esibire come un’arma letale per un pubblico all’estenuante ricerca di un coup de théatre, senza un litigio ben confezionato o una frase ad effetto, la musica non interessa più a nessuno. E stavolta non è una domanda, ma un’amara constatazione.
La colpa, sia ben chiaro, non va attribuita ai talenti (o pseudo tali). La colpa è di chi s’accorge e si compiace per l’aumento dello share di tre punti; di chi, di questa vicenda, farà un evento mediatico per accaparrarsi l’attenzione di gente che, altrimenti, avrebbe preferito le accattivanti vicende di Pepa e Tristan; di gente che, alla fine di questo grande trambusto, non comprerà comunque i dischi dei cantanti usciti dal talent. Coloro che acquisteranno i cd originali, saranno le stesse persone che avrebbero preferito vedere Suor Cristina ad “Italia’s got talent” e non in una trasmissione che afferma di voler trovare una nuova pop star, capace di scalare le classifiche e di far impazzire le radio. Discograficamente, la talentuosa suora non ha alcun futuro, ma questo non importa proprio a nessuno. Si è tutti troppo impegnati a gridare al miracolo. E, dall’altra parte, troppo impegnati a gongolare perché il miracolo è avvenuto: gli ascolti di “The voice” sono aumentati e la concorrenza è stata superata.
Il talento non va più di moda, forse perché in giro ce n’è troppo. O forse troppo poco e non siamo più abituati ad averci a che fare. Sta di fatto che, ormai sempre più di frequente, se non si aggiunge brio alle trasmissioni che cercano di portare alla luce giovani musicisti, la gente cambia canale. Quindi, se la colpa non è degli aspiranti cantanti, se gli autori assecondano gli interessi del pubblico, non resta che ammettere che il problema siamo noi che abbiamo in mano un telecomando e la libertà di annoiarci quando non c’è da recriminare. Forse siamo fatti proprio così: vogliamo la tv spazzatura, per poi criticarla ferocemente; vogliamo la novità, ma ci accontentiamo di lamentarci di quella che ha già fatto la muffa; vogliamo il talento, ma solo se è ben condito con parole, parolacce, fatti, fattacci e casi (dis)umani.

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Non è la prima volta che la musica passa in secondo piano. Anzi, capita di frequente. Basti pensare a Stefano Filipponi, giovane di Macerata, che qualche anno fa partecipò ad X Factor. Voce insicura, non sempre intonata, presenza scenica non pervenuta, occhiali grandi e grande ed evidente senso di smarrimento. Cantò, in maniera non troppo precisa e convincente, davanti ai quattro giudici di allora (Enrico Ruggeri, Anna Tatangelo, Elio e Mara Maionchi) e, a fine esibizione, disse poche e confuse parole balbettando. E la sua balbuzie, strumentalizzata ad arte dalla trasmissione, divenne il suo punto di forza, la sua arma vincente, che gli spalancò le porte del talent e quelle del cuore di molti italiani, che gli dimostrarono sin da subito un grande affetto. Ma siamo sicuri che a lui interessasse diventare il caso umano per il quale provare compassione e non un artista a tutto tondo, trattato alla stregua degli altri, capace di sopportare qualche mortificante porta sbattuta in faccia e la consapevolezza di dover studiare ancora? Non era forse meglio un “hai delle buone potenzialità, ma non sei pronto ad affrontare un programma come X Factor?”. Non era forse meglio non utilizzarlo per attirare la (dis)attenzione di un pubblico che altrimenti non ci sarebbe stato? Io credo che le risposte a queste domande siano chiare a tutti. Tranne a chi ha un preciso interesse a negare che questo giovane sia stato una marionetta nelle mani di un sistema cinico, che s’interessa ai numeri e alla curva dello share. E la musica, come sempre, resta in disparte a prendersi il tempo che le viene concesso, se le viene concesso.
E poi c’è “Amici di Maria De Filippi”, dove un giovane rapper dalle rime pungenti e provocatorie (“che confusione intorno a me, è quasi come dopo una bomba”), diventa addirittura “direttore artistico”. Non so se sia più imbarazzante o scoraggiante sapere che un ragazzino, che è entrato nel mondo discografico soltanto un anno fa, faccia da coach in una squadra di cantanti e ballerini; ciò che è certo è che tra non molto uscirà il suo secondo disco e questa prolungata esposizione televisiva sarà la più proficua promozione che potesse desiderare per la sua nuova fatica musicale.
Trovo disarmante che ancora oggi, per catturare l’interesse del pubblico, serva riempire la televisione di preti, suore e santoni di vario genere per catechizzare le masse; casi umani, di abbandoni e di dolore, vero o verosimile (purché sia dolore), per impietosirle; clown, pagliacci ed affini per farne ancore di salvataggio per auditel in declino.
Ma il talento serve ancora?

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