Il grande sen(n)o di Selvaggia Lucarelli

foto esterna

A me, che nel 2015 si debba sottolineare che una bella donna possa essere anche intelligente, sembra agghiacciante. E anche un pizzico mortificante. Per la donna, in primo luogo; ma anche per chi pensa non sia possibile. Che abbia curve e cervello, dico. Che un seno florido possa convivere con una mente pensante. Se è un uomo a dirlo, provo imbarazzo e tenerezza; dev’essere un ignorante, mi dico. Ma, se si tratta di una donna, provo sconforto. E resto in silenzio, curvo le spalle e mi chiedo se davvero sia possibile. Che si viva di cliché, innanzitutto. Che si sopravviva a colpi ben assestati, ma di fatto di gomma, di frasi fatte: sparano dritto ma rimbalzano all’indietro, mostrando la vera faccia chi di –nascosto dietro una tastiera- si affanna a dare il proprio giudizio. Giudizio che, il più delle volte, si limita ad essere “chi ti credi di essere?”. Mentre i più coraggiosi azzardano un temerario “sta’ zitta che hai visto più cazzi tu che Cicciolina!”. Gente in pace con se stessa, insomma, sempre ben attenta a nascondersi dietro immagini di gatti, cani o paesaggi estivi. Qualcuno, spudorato, si mostra sorridente in una foto con la moglie e i figli. Accozzaglie di infelicità, mi viene da pensare.

Selvaggia Lucarelli è vittima della propria bellezza, della propria dialettica, della propria penna tagliente e mordace. Vittima di virtù che molti -mi prendo la responsabilità di pensarlo- le invidiano. Virtù che fa comodo chiamare limiti. Ma non è vittima del suo personaggio, e questo –almeno a me- basta per provarne stima. Che non significa “condivido tutto quello che dice”, significa “mi piace che lo dica”. Mi piace che ci sia una donna che sappia riflettere e ironizzare su ciò che ci circonda e che sia capace di tradurre in parole i propri pensieri. Parole ben scritte, che si masticano da sole, in fretta, per scoprire quelle successive. Parole ben acconciate che, a spogliarle, restano vive. Severe, a volte; consapevoli, sempre; persino pungenti e spiazzanti, ma mai vuote. Ma mai nude. Le cose vere, che siano pensieri o persone, senza cipria o grovigli di virgole, si portano dietro il senso più profondo della loro esistenza, della loro essenza. Mi piace che una persona prenda posizione, che lo faccia ad alta voce, che lo faccia a scapito di altre alternative. Mi piace che una donna combatta il pensiero retrogrado di certa gente, mostrandosi così com’è. Ostinatamente sexy e procace, volutamente provocatoria, selvaggiamente femmina. E, infine, ma non ultima per importanza, io amo la sua autoironia. E Selvaggia potrebbe sfamare tutti gli eserciti di fans che –puntualmente- come soldati in guerra, si armano di insulti e prepotenza e attaccano il nemico. Si difendono, a loro dire. Ma -di fatto- ad un pensiero ragionato, ironico e arguto, rispondono con i vari “trovati un lavoro”, “tromba ogni tanto”, “tutta invidia”: a me non sembra una difesa. Io sono stato educato ad argomentare la mia posizione, con rispetto, buon senso e intelligenza. Sono stato educato al confronto. E -ben più importante- a lasciar correre. Semplicemente perché non si può essere d’accordo su tutto, sarebbe pretenzioso e disumano.

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Ma veniamo al punto: i social sono un covo d’odio. Di frustrazione e inconcludenza, perlopiù. Un angolo ammuffito di personalità indefinite che arrancano per trovarsi un posto al sole; o –perlomeno- alla penombra. E mentre si prodigano alacremente per non riuscirci, denigrano chi gli capita a tiro. Denigrano chi riesce a fare qualcosa, qualsiasi cosa loro non sappiano fare, senza averci mai provato. Gli insulti sono sempre gli stessi, manco fossero capi in svendita a Piazza Italia. Ma le categorie sono svariate e tutte, ahimè, già rodate: parto dagli irrecuperabili, quelli che augurano la morte, un male incurabile o un incidente; poi quelli -già citati- dell’insulto sessista “taci che sei una troia!” e solitamente sono donne; quelli che restano sbalorditi dal fatto che una donna sappia addirittura scrivere e, più in generale, che un essere umano possa vivere di scrittura, “ma cercati un lavoro serio”; non mancano quelli che dissentono a prescindere “non sono d’accordo con te, mi dispiace” e non spiegano perché non siano d’accordo, né perché –nientemeno- gli dispiaccia; poi c’è la categoria più esasperante, quella dell’invidia cronica: anche se la critica si rivolge al nuovo robot da cucina Delonghi, rispondono “la tua è tutta invidia”. Un mondo surreale e grottesco, un’impalcatura instabile per gente appesantita. Dalla propria incapacità, suppongo. Eppure sarebbe semplice non travalicare il limite che separa il rispetto dall’offesa, il buon senso dalla maleducazione, l’ascolto (o la lettura, in questo caso) dal giudizio affrettato, che è -quasi sempre- pregiudizio, che è -quasi sempre- una sconfortante dichiarazione d’ignoranza. Limite –peraltro- abbastanza massiccio; serve una buona dose di ostinazione per travalicarlo. La stessa dose che manca quando c’è da indignarsi. Quando c’è da protestare. Quando c’è da ricordarsi che il mondo vive fuori dai social, dentro ci sopravvive, resiste –sdegnato- alla disattenzione dei tweet.

Ecco la parola chiave: ignoranza. È così che leggo questi fatti. È così che mi spiego l’odio di alcuni verso un personaggio che ha un ottimo riscontro sui social. E l’ignoranza non si combatte, significherebbe sbattere –ogni volta- contro un muro di gomma. Si evita come la peste, sperando che –a forza di scansarla- si seppellisca da sola, sotto le macerie della propria inutile (r)esistenza. Credo in un mondo in cui possano coesistere il grande seno e il grande senno di Selvaggia. A volte -non lo nego- fa arrabbiare anche me; spesso, il mio pensiero non coincide col suo. Ma difenderò fino alla morte dell’ultimo dei segaioli sui suoi scatti conturbanti il suo diritto a dirlo.

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