L’abbraccio di “nonna” Roma

10984905_10206131759035922_1432757144_n

Scrivo queste parole mentre sono affacciato alla terrazza del Pincio. Piazza del Popolo è ai miei piedi, dipinta di pioggia, malinconia e rumori. Rumori di gente che schiva pozzanghere, mentre parla al telefono. C’è un uomo che suona degli strumenti di fortuna per guadagnarsi da vivere; sarebbe un gran baccano, se non fosse così bravo: il suono della sua musica arriva fin quassù, scandisce i passi e si alterna ai click delle macchine fotografiche. Poi ce n’è un altro che fa delle grandi bolle di sapone, i bambini si fermano a guardarlo. Le persone, accanto a me, scattano una fotografia a questo tramonto appena accennato, che ci concederà di guardarci in faccia ancora per poco, poi sarà buio. Qualcuno parla inglese, qualcuno dà le spalle alla città, mentre con l’indice la indica, e con l’altra mano si scatta una foto. Qualcuno resta zitto a guardare. Qualcuno non si ferma affatto, non alza nemmeno lo sguardo.
Non mi importa del vento che mi taglia la faccia, non mi copro. E non mi curo delle mani gelate, mentre scrivo. Guardo questo groviglio di case e storie, di cupole e storie i tetti che sembrano accarezzare il cielo. Sento il sapore del tempo, di quello passato, e il suo retrogusto dolciastro e accogliente. Come la faccia affabile di un’anziana. Come il volto, provato ma fiero, di una nonna. Che si gode l’esito sospirato di un traguardo, dopo tanta fatica. Fatica guarita; come le crepe su un muro robusto che, a forza di rischiare il crollo, ha imparato a non crollare mai. Crepe che, a forza di immaginarci un destino, sembrano rami intrecciati di una pianta che germoglia fiori, ancora, nonostante tutto. E non ha mai smesso. Roma è una nonna sorridente e gentile, che ha provato l’umiliazione della disattenzione. Quella di chi non se n’è accorto o ha fatto finta. Ma germoglia magia, gemme di splendore.
Il sole è sceso oltre l’ultima casa, all’orizzonte. E il cielo è carico di nuvole che piovono gli ultimi raggi di luce. Resto fermo. E intorno a me nessuno sembra voler lasciare questo terrazzo, sospeso tra il fango e la pioggia. Continuano i flash sui volti della gente, che passa a lasciare la propria ammirazione. Ogni volta che m’affaccio da qui, mi sembra di sentire il pulsare di un cuore che ci stringe tutti, come se fossimo vivi per la stessa ragione.
I bambini si rincorrono, qualcuno piange in braccio alla propria mamma. “Nonna” Roma ci accoglie tutti e, per ognuno di noi, quello diventa il posto giusto. C’è un anziano signore con un cappello di lana, seduto su una panchina; accanto, una donna con i capelli grigi e un cappotto blu. Chiamano una bambina, “Vittoria, non t’allontanare!“, le dicono. Lei gioca con il brecciolino, costruisce mucchi di pietre, poi smette e ricomincia subito. Ride divertita, corre, s’allontana, ne prende altri e s’inchina per riprendere. “Nonna, mi piace giocare qui!“, risponde. La lasciano fare. Sorrido. Mi piace vivere qui, mi dico. I lampioni sono accesi, adesso. Ormai è quasi buio. Fa più freddo. Credo che “nonna” Roma abbia perdonato tutti, persino quelli che ancora la calpestano. Persino quelli che non s’accorgono di lei. Le vittime d’abitudine pagano per prime la propria insoddisfazione, pagano mentre sono impegnate a non accorgersene. Amare la mia nuova città non diventerà un’abitudine, mi dico. Vittoria è in braccio ai suoi nonni, torno a casa anch’io.

Share on FacebookShare on TwitterShare on Tumblr

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.