IO BASTO A ME STESSO – capitoli 1 – 2

definitiva1

Dedicato a Cristina.
A Dario.
A tutti i destini interrotti a un passo dalla vita.

                                                Nessuno basta a se stesso, l’ho imparato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Capitolo 1

 

Diario di Filippo

 

Mi chiamo Marco, Giulio, Simone o Francesco. Sì, Francesco mi è sempre piaciuto. O forse ho sempre odiato il mio nome. Qualsiasi altro mi andrebbe bene, ma il mio no. È di un’altra persona, non mi appartiene. E a me rubare le cose degli altri non è mai piaciuto. Dicono che fossi un tipo originale, ma come posso esserlo se continuo a farmi chiamare Filippo? Sono ladro di me stesso, ladro di una storia finita, di una stanza invecchiata e di una cena riscaldata. Perché Filippo è morto. Ed è inutile fotocopiarsi i giorni e riattaccarli al posto di quelli nuovi, di quelli che fanno ancora paura. O che dovrebbero far paura. Io temo di più quelli vecchi, quelli appassiti, quelli che ho già vissuto o che mi sono passati accanto, senza che potessi fermarli o sputargli addosso. Ho dormito tanto. E non sopporto chi sdrammatizza, non serve. Mi mette angoscia. E mi dà un po’ anche ai nervi. Perché, certe cose, soltanto io posso concedermi il lusso di farle, o di dirle, gli altri no. Gli altri mi mettono una mano sulla spalla, Poteva andare peggio, mi dicono. E abbassano gli occhi ai miei sguardi cupi a maledirli. Ad azzittirli. Gli altri mi sorridono, mi dicono che sono come dieci anni fa. E io rispondo che dieci anni fa non avevo ancora la barba, oggi si. Mi dicono Sei bello come sempre. Rispondo che sono cazzate; che io, bello, non lo ero allora e non lo sono adesso. Mi dicono che c’è tempo. E io non rispondo, perché non lo so. Non so se c’è tempo.

 

Fili, hai comprato il latte?
Si, mamma, eccolo.
Hai controllato la scadenza?
10/10/1998.
Bene, non scade a breve. Cosi evitiamo di buttarlo, come sempre, e le sbocciava sulla bocca un sorriso tenue e rilassato. Gli occhi le si allargavano.
Ma mi spieghi perché compri il latte, se a nessuno piace?
Sempre meglio averlo in casa.
Ma non lo beve nessuno.
Ecco, hai dimenticato il burro, e le sfioriva quel sorriso. E le mani frugavano in quel sacco gigante e vuoto.
Non c’era nella lista.
Sì che c’era!, ricordo che ha alzato la voce, Sei il solito, e l’ha riabbassata.
Anche quella volta il latte andò buttato. Io non l’ho mai bevuto. Io dormivo.

 

Il latte continua a farmi schifo anche adesso. Almeno in questo sei rimasto uguale, mi dicono a casa. Uguale a chi?, vorrei chiedere io. Ma sorrido e resto zitto. Uguale a nessuno. Uguale a qualcuno. Uguale a me stesso. Uguale a chi non c’è più. Non riescono a capire che Filippo non c’è più. Lui andava a messa, ogni domenica mattina. Io non ci vado. I preti si asfaltano il pene per essere migliori. Migliori di chi?, mi chiedo, Per dare un buon esempio a chi?. Sono persone represse, quelle. A me fanno paura. Ecco, come potrei essere ancora lui. L’ho detto, è morto. E io sono Marco, Giulio, Simone o Francesco, perché così mi va. Sono altro. Sono un altro. Sono quello che adesso mi tocca decidere di essere. Ero solo un ragazzo, allora, eppure mi sentivo un adulto. Perché a diciott’anni spacchi il mondo. A trenta ti spacchi la schiena perché porti addosso il peso della vita. Il peso del passaggio dall’età in cui tutto è concesso, a quella in cui devi accettare che forse non è proprio così. In ogni caso, io non porto alcun peso sulle spalle. Ho dormito tutti i giorni in cui avrei voluto vedermi crescere la barba e la rabbia. E ora ho una carta d’identità nuova e una famiglia vecchia, una casa vecchia, una storia vecchia, una vita vecchia. O giovane, immacolata e infedele, dipende dai punti di vista. Oggi ho quasi trent’anni. Ventinove, per la precisione. Sono andato a letto che mi sarebbe piaciuto sembrare più maturo nell’aspetto, nei miei lineamenti gentili, nei miei capelli, che allora erano ancora ubbidienti. E mi sono risvegliato pensando che avrei fatto bene a maledirmi, quel giorno che sognavo d’invecchiare. Quel giorno non lo dimentico. Quel giorno ha scritto la mia storia, dieci anni di me, raggomitolati in un letto bianco. Ho perso tante cose. Come la mia laurea, ad esempio. Io volevo fare l’architetto. Ho sempre avuto le idee chiare. Perché quando volevo una cosa, la volevo davvero. Adesso voglio una cosa soltanto, che non si faccia sera, perché non mi va di dormire. Non chiedo nient’altro. E quindi scrivo. Me l’ha detto lei di farlo, dice sia terapeutico. E io lo faccio, disilluso quanto basta per pensare che con la luce del giorno avrò riempito la carta bianca, non i muri di questa stanza. Scrivo di me. Non c’è molto da dire. Solo che non voglio più fare l’architetto, non ne ho più l’età. Voglio. Mi costringo a volere qualcosa, perché dicono che i desideri spostino la vita, che le diano un senso. Quindi, visto che gli altri vogliono che io voglia, io voglio. È buffo. Ma se fa stare bene l’altra gente, forse farà star bene anche me. Me lo ripeto tutti i giorni e faccio finta di crederci. Faccio finta che mi vada bene. Ma non si può puntare in alto, pensando di andarci con le giustificazioni degli altri. Io non ho scuse, né scusanti, non ho occhi e non ho gambe. Ma voglio, perché così si fa. Perché così m’insegnano quelli che ne sanno più di me. Quelli che, ogni sabato mattina, vanno ancora a fare la spesa e poi affogano le notti in locali di birre ghiacciate.

 

Grecia o Spagna?
Croazia.
Croazia?
Beh, sì. È bella.
Ci sei mai stato?
No.
E allora come fai a dire che è bella?
Non so, ma mi piace l’idea di andarci.
In fondo non conta il posto, partiamo anche adesso!, cercava anche il mio entusiasmo e chiudeva i libri.
Fra tre settimane abbiamo gli esami.
Non farmici pensare…
Allora, riprendiamo… Prima guerra mondiale!
Fil, non ricordo un cazzo.
Fabio…
Non farmi la predica, non ricordo un cazzo.
Ed effettivamente Fabio non ricordava un cazzo. È uscito col minimo. Io me la cavavo a scuola. E in Croazia volevo andarci, ma non ci sono stato. E nemmeno in Grecia. E nemmeno in Spagna.

 

Non avrei mai pensato che sarebbe andata cosi. Certe cose non si pensano mai. Certe cose succedono. Come succede che mia madre continui a comprare il latte, anche se in casa non lo beve nessuno; come succede che mia sorella abbia diciott’anni e io non l’abbia riconosciuta. Era una bimba, con i suoi occhioni chiari e i capelli biondi, lunghi e soffici. Era bella, mia sorella. Mi seguiva quando uscivo, diceva che voleva stare con me. A me rompeva le scatole, ma le volevo bene.

 

Posso venire con te?
No, Sabrina.
Ma io sono grande!
Hai otto anni.
Appunto, non sono più piccola!
Ho detto di no.
Ti supplico!, incrociava le mani e inarcava le labbra.
Non l’ho mai portata con me, era troppo piccola. Troppo viziata, forse. E forse è giusto così, è nata dieci anni dopo di me. Era la piccola di casa, è la piccola di casa. Questo non è cambiato.

 

Ora è lei che non mi porterebbe con sé, se le chiedessi di uscire insieme. Ma non potrei mai chiederglielo. Siamo diversi. Era una bambina bella e viziata, bionda e furba. Ora è una donna mora e alla moda. L’unica cosa che sono riuscito a domandarle è perché abbia colorato i suoi capelli. Mi piaccio così, mi ha risposto. E sottinteso c’era un Cosa vuoi saperne tu, tu dormivi, ma non l’ha detto. È una stronza, mia sorella; forse perché è bella. Frequenta l’ultimo anno del liceo e a scuola non è brava quanto me. Ma a nessuno importa. Nell’ultimo anno ha cambiato due o tre fidanzati. Cerca l’amore, lei. No, non l’ha mai detto a me. Gliel’ho sentito dire mentre parlava con qualche sua amica. Noi non ci parliamo molto. Buongiorno, Ciao, Come va?, Oggi ricordi qualcosa di nuovo?, Che scuola frequenti?, niente più di questo. Non è la bimba di allora. Allora era insistente e impertinente. Oggi è superficiale, come tutte le ragazzine della sua età, superficiale e ben vestita. Dice d’essere la sorella di Filippo; non è mia, quindi. Io sono quello che sono e non so più chi sono io.

 

È un’esperienza soffocante non ricordare più chi si è. È come raccontare una storia sott’acqua e sperare che il resto del mondo ti senta. Non ti sente. Vede solo le bolle che salgono e rischia di confonderle con i pesci che nuotano. Non ci sono speranze. I ricordi torneranno poco alla volta, mi diceva la dottoressa. Che troia. Non mi ha detto che poi, il giorno in cui sarebbero tornati, non li avrei più riconosciuti, quei ricordi. I medici sono superficiali. Per loro conta la scienza, i libri, le formule, le cartelle cliniche, le linee orizzontali. Ma, della mia faccia, non gli è mai importato nulla. Dei miei occhi scavati e scuciti, non gli è mai importato niente. Nessuno mi ha detto che poi, un giorno, avrei ricordato tutto, ma non sarei stato più lo stesso. Tutto è niente. È elementare. Tutto è diventato niente. Questa canzone ti piaceva tanto, e mettevano i dischi di De André. Lo amavo. E lo capivo anche. Capivo le sue rime assurde, i suoi ricami di parole, le sue pause e i suoi silenzi. Ma è morto. È morto mentre io dormivo. Però, quando me l’hanno raccontato, non ho pianto. Forse non m’importava più. Forse De André non mi piace più. Piaceva a mia nonna, me l’ha fatto conoscere lei. Angelina, ci chiamava. Bella, come la neve sulle staccionate, all’alba. La mia nonna era sincera. La mia nonna ha vissuto la guerra, aveva dieci anni nel ’40. Mi raccontava che aveva paura e piangeva. E ogni volta che si spogliava dei suoi ricordi, aveva gli occhi lucidi e grigi, come i suoi capelli. Non li tingeva, li lasciava così. Sono felice di essere vecchia, finalmente, mi diceva. E rideva di gusto. Non aveva bei ricordi della sua infanzia, nemmeno della sua adolescenza. Era felice di essere vecchia perché poteva godersi gli errori degli altri; lei, i suoi, li aveva già commessi. E pagati. So cose di lei che nessuno sa. Parlava solo con me. Tua sorella è furba, mi sussurrava. Ed è vero. Parlava soltanto con me, con nessun altro dei miei cugini, perché di figlie ne ha quattro, compresa mia madre. E tanti nipoti. Tu sei il mio preferito, ma non dirlo a nessuno, e rideva fino alle lacrime. Era buffa, Angelina. Era buffa e tutta bianca.

 

Nonna, chi è questo signore nella foto?
Dove l’hai presa questa?, me la strappò dalle mani, quel giorno.
Nel tuo comodino, in fondo, dove tieni le medicine.
Vai a rimetterla al suo posto!, e me la restituì, dopo averla capovolta per non mostrarmi quel ragazzo stropicciato.
Perché non mi dici chi è?
Perché è una storia lunga. E tu sei troppo piccolo e curioso. Un giorno te la racconterò.
Voi grandi dite tutti cosi. Poi magari lo dimentichi e non mi dici più niente.
Io non sono grande, ricordi? Io sono vecchia. E i vecchi non dimenticano, e tornò a sorridermi, con i denti suoi tremanti e le mani appese al mio volto.
Mi fido di te, ricambiai.
E ho fatto bene a fidarmi. Lui era Carlo. Mi ha detto di non aver mai smesso di amarlo. È morto in guerra, nel ’44. Lei aveva quattordici anni, lui quasi venti. Ma erano innamorati. Nonna Angelina diceva che l’amore è amore a qualsiasi età.

 

E mi ha detto che non l’ha mai dimenticato, anche se dopo ha sposato il nonno, anche se dopo ci ha fatto quattro figlie. Lei, Carlo, lo ama ancora. Perché se dimentichi l’amore, dimentichi te stesso, mi diceva. Era dolce. Ed era piccola come una colomba, bianca e pura. Non ha sporcato il suo matrimonio, nemmeno la sua vita. Lei ha amato davvero, in silenzio, forse è così che si fa. Anche dopo, anche adesso, forse. Chissà dove. Mentre io dormivo, mia nonna è morta. E non l’ho dimenticata, nemmeno per un istante. È stata la prima persona che ho chiesto di vedere, il primo addio che ho sofferto. La grande assente, la vera assente. Ho pianto solo per lei, non lo faccio spesso. Non sono un duro. Non sono un superficiale. Io non piango. Ma Angelina mi manca. Mi manca che mi sorrida e mi prenda in giro. Mi avrebbe detto Vedi? Sono vecchia e i vecchi mantengono le promesse, così ti ho aspettato. Ma non mi ha aspettato. In realtà, non mi aveva fatto nessuna promessa. Ma aveva ragione, io vecchi sono diversi dagli adulti.

 

I grandi si riempiono la bocca di parole inutili. Le orecchie, di storie grossolane. I vuoti, di frasi rubate alle riviste, ai film, ai cartelli pubblicitari. Tutti rubano qualcosa agli altri e non chiedono scusa. Io non rubo niente a Filippo. Gli restituirei anche questa casa, se potessi. È mia, ci sono cresciuto, ma non mi piace. Ho lasciato tutto com’era prima, mi ha detto Cecilia. Cecilia è la mia mamma. Pensa di avermi fatto un favore. Non me ne frega niente della mia camera, che sia come prima o che sia diversa. Non mi appartiene. Non mi appartengono queste pareti, le storie scritte con matite sgualcite e poi prontamente cancellate, le fotografie impolverate, il letto vecchio e affossato. È insulsa, o forse non lo era per un diciottenne. Ma io sono grande, ora. O cerco soltanto di convincermi di esserlo. Sono quello di prima, ma adesso ho la barba, i cappelli arruffati, qualche chilo in più. No, non sono io. Preferivo quando non ricordavo niente. M’inventavo. Mi inventavo il passato e mi piaceva l’idea di essere come m’immaginavo. Ricordo quando mi ero convinto che in salotto ci fosse uno di quei quadri orrendi, uno di quei falso d’autore per gente che non può permettersi l’originale. In questa parete non c’è mai stato un quadro, mi ha detto mio padre. Secco e diretto, come una freccia piantata in una corteccia invecchiata. Poteva dirmi Sì, c’era, ma l’abbiamo tolto. Invece no. Il quadro non c’è mai stato e a me piaceva che ci fosse, perché l’avevo immaginato cosi. E, ora che mi ricordo perfettamente di quella parete, mi sento ridicolo. Ridicolo perché so che sono io, ma con dieci anni vuoti addosso.

 

Dove mi porti?
Sulla spiaggia. Ho voglia di fare l’amore.
Sulla spiaggia a fare l’amore?, era sorpresa, quel giorno. Era al mio fianco, si stringeva a me.
Non vuoi?
Sì che voglio.
Ti amo, Viviana, gliel’ho detto guardandola negli occhi.
Io di più, e l’ha fatto anche lei.
Io la amavo. E lei di più. Eravamo giovani e immortali. Con lei ho fatto l’amore per la prima volta. Ed era la prima volta anche per lei. Oggi, dopo undici anni, mi ama ancora. Io no. Ma è la mia fidanzata. Perché è destino che non ci lasciamo più, mi dice. Non ti amo, perché non sono Filippo, tu ami un’altra persona, vorrei urlarle io, ma me ne sto zitto. Zitto e stanco. Mi ha aspettato per tutto questo tempo. E io non la ricordavo nemmeno. Le ho chiesto di lasciarmi in pace, la prima volta che l’ho rivista. Non ricordavo la sua faccia, le sue mani sul mio volto. È la barba, mi dicevo. La mia faccia ora è diversa o sono le sue mani a non essere più quelle di una volta. Io non la amo più. Semplicemente perché non ricordo il motivo del nostro amore. Non ricordo di cosa mi sia innamorato. Forse dei suoi lunghi capelli scuri, dei suoi capelli pesanti. Della sua piccola e immobile cicatrice sulla fronte. Del suo seno, forse. È bello, sì. E ci ho fatto l’amore, ho affondato le mie mani nel suo petto. Ma ho fatto l’amore anche con altre, ed è stato esattamente la stessa cosa. Fare sesso con la mia fidanzata o con una puttana qualunque è esattamente la stessa cosa. Vorrei dirle che il tempo passa, che persino il tempo infecondo può cambiarci. Ma non capirebbe.

 

Tutti a ricordarmi com’ero. Ma a te piaceva tanto il pesce al forno, Ora mi fa schifo e così il gelo. Silenzio sulla nostra tavola. Non capiscono che io non sono solo me. Sono anche tutti i giorni che ho dormito. Io sono quello che la vita ha scelto per me. Sono quello di quel giorno in macchina, quando mi sono schiantato contro un muro. Sono quel giorno che non ricordo.
È normale che non ricordi il giorno dell’incidente, è il tuo cervello che si rifiuta. È del tutto naturale.
Ma adesso ricordo tutto il resto, tranne quel momento, e cercavo di essere capito. Cercavo un consenso nei suoi occhi.
Non sforzarti, verrà tutto naturalmente.
Se lo dice lei…
I medici sono superficiali, l’ho detto. Io voglio ricordare come ho fatto. Dicono guidassi io. Ora ho paura delle macchine, non ci salgo mai. Cammino a piedi e ci sto lontano. Ho paura che mi mettano sotto, che mi facciano a pezzi. Io in quel letto non ci torno.

 

Io sono quello che gli anni non vissuti mi hanno raccontato. Mi hanno fatto diventare solo più disilluso, più brutto o imbruttito. E non amo più Viviana, è rimasta legata a quelle volte che facevamo l’amore. Eravamo inesperti e felici. Mia sorella è un’estranea, non mi chiede più di uscire insieme. La mia camera è inespressiva. È ridicola. La mia mamma compra il latte. E papà tifa ancora per la Juventus. Anche lui è uguale a prima. Ora ha qualche capello bianco e gli occhi gonfi. È stanco. Ma sento di volergli bene. Angelina è morta. Ha avuto un ictus e poco dopo se n’è andata.Voleva aspettarti, vederti riaprire gli occhi, perché lei sapeva che ce l’avresti fatta, mi ha raccontato mia madre. Ma non l’ha fatto. Se n’è andata perché era vecchia. E forse anche mal ridotta. Ha raggiunto Carlo. Chissà se Angelina ora è felice. Vorrei dirle che io non lo sono. Ma non credo in alcuna felicità, quindi va bene cosi. Non voglio niente. Non chiedo niente. Non ho avuto il tempo di trovarmi qualcosa da desiderare. Voglio soltanto non dormire più. Non per dieci anni. Non per così tanto tempo. Che poi la terra continua a girare e tu resti fermo ai pop corn ingialliti e alle cabine telefoniche, piene di gente frenetica e arrabbiata. Che poi la gente invecchia e tu, quelle rughe scure, non le avevi mai immaginate, non cosi. Non così profonde. Che poi tutti hanno un cellulare e tu non ne hai mai avuto uno. Ora ce l’ho anch’io. Lo uso di rado, era di mia sorella. Lei ne ha uno nuovo. Uno che, se sorride, le scatta una foto. Ma, a rispondere alle chiamate di mia madre, lei nemmeno ci pensa. E la mamma prega che sia solo distratta, non che le sia successo quello che è capitato a me.

 

Oggi festeggio il mio nuovo, primo compleanno. Mia madre ha preparato il pesce al forno che a me non piace più, l’ha fatto per festeggiare. Mia sorella è rimasta a casa qualche minuto in più, prima di scappare da questo o quel fidanzato. L’ha fatto per me, per festeggiare. Viviana mi ha portato un album di fotografie. Ci sono delle nostre immagini di dieci anni fa e alcune nuove. Lei, al vuoto che c’è in mezzo, non ci pensa. In quel raccoglitore c’è la sua storia con Filippo, non con me. Le ho promesso che l’avrei guardato. Ma non lo guarderò. Io festeggio a modo mio. Un anno che sono uscito dal coma. Un anno che mi ripetono Ma prima non eri cosi, un anno che trattengo il fiato. Per tanto tempo non ho ricordato niente, nemmeno il mio nome. Nemmeno mia madre, nemmeno i miei amici, Fabio, i quadri di casa, il latte scaduto. Ora ricordo tutto. O quasi. Come mi sia ridotto in coma, non lo so. So che c’era mia mamma al mio fianco, guidavo io, avevo appena preso la patente. So che ero giovane e immortale. Senza barba e senza pancia. Avevo fatto gli esami di Stato; ero forte, io. Invincibile. Ero il mio viaggio in Croazia, ero la mia notte sulla spiaggia a fare l’amore, ero il burro dimenticato sul bancone di un supermercato ormai fallito, dove ora hanno costruito una palestra. Ero il sorriso di mia nonna, i capricci di mia sorella, la partita di calcio di mio padre, il Natale tutti insieme a far baldoria, con i miei cugini, tutti più piccoli, tutti più rumorosi di me. Ero quello che poi non sono stato. È buffo essere quello che non si è mai stati. È come bruciarsi con l’acqua fredda e vedere la pelle spezzarsi e farsi sangue. È come fotografare una stanza al buio e pretendere di riuscire a vedere il poster del mio De André, che non mi piace più. Le scarpe slacciate, i vestiti scaraventati qua e là per la stanza, la mia foto con lei. Ora sono niente. Ora sono un bimbo di un anno nel corpo di un quasi trentenne. Non bestemmio Dio per avermi tolto tutto, perché a lui non ci credo più.
Che Dio ce la mandi buona.
Che vuol dire, nonna?
Che siamo nelle mani del Signore, tesoro mio.
Le sorrisi, allora. Avrà delle mani grandi per starci tutti, pensai.
La mia Angelina credeva molto in Dio. E ci credevo anche io. Ora no. Ora credo in ciò che vedo, credo ai cellulari, ai computer, alle puttane e ai cani. Si, perché magari il giorno dell’incidente un cane mi ha tagliato la strada. Forse è andata così. Forse è colpa di quel bastardo a quattro zampe. Se lo trovo, lo ammazzo. O forse no. È normale, poi ti passerà, ma io a pregare non ci vado più. Non è un capriccio, io a Dio non ci credo.

 

Ricordi?
Si, la ricordo.
Ti piaceva tanto questa maglietta, era la tua preferita, e mi sorrideva come a sperare che mi piacesse ancora. Come a sperare che riuscissi a ricambiare.
Mamma, ho trent’anni.
Si, lo so, ma è ancora bella.
Buttala.
Ne sei sicuro?, e le si sbiadivano le guance.
Si, irremovibile.
Era bella, quella maglia. Ma io non potrei più indossarla. Non so come mi vestirò. Non so come si veste uno che si sente estraneo nella sua storia. Nei suoi pomeriggi di sole tiepido. Nei suoi armadi di rottami confusi. Di sorrisi attaccati con poca convinzione. E non sono Marco, Giulio, Simone o Francesco. Sono Filippo, col mio nome che non sopporto e mia madre che mi sorride. Sono quello che non ho vissuto. Sono quello che non sono stato. Sono un liceale invecchiato d’un colpo, per una svista o per un disegno maldestro della vita. Ho quasi trent’anni e odio il latte, ora come allora. Ma non sono più io.

 

 

Capitolo 2

 

Posso?
Ormai sei entrato.
Sei pronta? Stanno per arrivare gli zii.
Finisco di truccarmi. Faccio presto.
Esce. Ha imparato a chiedere il permesso, prima di entrare nella camera di sua sorella. Stava truccandosi. Non ne ha bisogno. Ma a lei, quegli occhi chiari, piace circondarli di nero, Per metterli in risalto, dice. Non lo dice a Filippo. Lo dice a qualche amica, lui ascolta. Lui assorbe i pezzi di questa nuova casa, che nuova non è. Assorbe, come una spugna, gli anni che sono passati come lunghe scie d’aerei trasparenti. Assorbe sua sorella, che è cresciuta, che ha colorato i suoi capelli, che si sporca la faccia di cipria rosa, che mette i tacchi, che non riconosce più. Assorbe quei silenzi tra di loro, quella voglia di dirle Sembri una puttana. E l’incapacità di parlarle. Sono cresciuti, lei è cresciuta. Sono cambiati, dieci anni fa non erano niente, o poco più. Una bimba di otto anni non è nulla. A diciotto è qualcosa. È un cane che rincorre un osso. Filippo, a diciotto anni, era un cane che rincorreva il suo osso, andava veloce, sbrigliato come una foglia trascinata dall’aria. Cercava, nel suo armadio, i vestiti da indossare, quelli alla moda, quelli rubati alla televisione, alle pubblicità di marchi americani. Si guardava allo specchio, voleva essere bello. Forse non sono così diversi. Forse sono solo incapaci a parlarsi. Dieci anni di silenzio sono tanti. Dieci anni di solitudine. Lei è stata figlia unica, forse lo odia perché avverte come un torto il fatto di dover dividere con lui una casa, dei genitori, il latte scaduto e il posto a tavola. E Filippo, forse, la detesta perché lei è cresciuta, lui no. Lui ha due età, nei documenti. Ha l’ingenuità dei diciott’anni e la crudeltà dei trenta. Forse vorrebbe quello che lei avrà. Non si odiano. Sono solo due estranei che non hanno voglia di conoscersi. Due estranei che si sono abituati a convivere con se stessi, ma non con gli altri. Due che non sanno di volersi bene.
Sabrina è pronta, con i suoi capelli castani e lunghi appena sotto le spalle, gli occhi chiari, cerchiati di nero, i leggings scuri e il suo culo perfetto. È alta, non era così allora. Ha fatto l’amore in questi anni. È una donna, adesso. Si crede una donna, adesso.

 

Ugo, aiutami!
Arrivo!
Cecilia sposta di qualche centimetro l’albero di Natale, finto e barcollante. Quant’è brutto, quant’è finto, ha i rami piegati verso il basso. È lo stesso di dieci anni fa. Per molti anni non l’abbiamo più fatto, non c’eri tu, gli aveva detto sua madre. E Filippo non le aveva risposto. Poi, però, hanno ripreso a farlo. Forse poi se ne sono fregati di lui, del fatto che potesse non risvegliarsi mai. Ognuno pensa a se stesso. Forse anche i suoi genitori, ad un certo punto, hanno iniziato a pensare che, forse, era il caso di andare avanti, che per un figlio che si perde, non si può smettere di fare l’albero a Natale. Ma lui ora è qui. E l’albero non resisterà per un anno ancora. Cadrà. Ugo l’aiuta a spostarlo. Indossa il suo solito maglione rosso, lo metteva sempre la sera della Vigilia. Ma deve averlo ricomprato, è ingrassato, ne avrà preso uno nuovo. Forse l’ha acquistato per lui, per Filippo, questo è il suo primo Natale dopo il coma. L’anno scorso ne era uscito, ma non ricordava nemmeno il suo nome. L’hanno festeggiato in ospedale. Quest’anno è tutto come prima. Tutto uguale e diverso. Lui è un prigioniero libero. E Ugo è vestito come sempre. Solo che sua sorella è vestita da zoccola. Sua madre fa spazio perché arriveranno le sue sorelle, con i loro mariti e tutti i loro figli. E Angelina non c’è. È il sesto Natale senza che si vada più da lei a far baldoria, a urlare i numeri a tombola. È il primo Natale senza la sua nonna. Per lui, è il primo. Da quando la nonna non c’è più, festeggiamo qui da noi, gli ha detto Cecilia. Sorrideva, ma non ci credeva nemmeno lei. Perché trapiantare le tradizioni è come versare un litro d’acqua in una tazzina da caffè. Non può entrarci. Si bagnerà il pavimento e qualcuno, involontariamente, scivolerà. E Filippo sa bene che sarà lui la vittima scelta. Ha sorriso anche lui e ha trattenuto un Vaffanculo. Gli sembra di tradire la sua Angela. Stasera aspetterà che sia mezzanotte solo per andare nella sua camera, non per scartare i regali della nonna. L’ultimo è stato un pigiama giallo, brutto e pesante. Non l’ha buttato. Ma non lo metterà mai. È l’anti sesso, le aveva detto. È l’anti che?, aveva fatto finta di non capire lei. Sono vecchia, aveva aggiunto. E rideva, complice e bella, come sempre.
Suonano alla porta. Ugo va ad aprire. Sembra un po’ curvato, sembra un po’ invecchiato. Ha quasi sessant’anni. È Viviana. È vestita a festa, con i capelli raccolti in un’acconciatura ben fatta. Indossa un vestito corto, blu. I tacchi non sono troppo alti, lei è sempre stata una tipa moderata. Filippo le sorride poco convinto. Come sempre. Ma a lei basta.
Ciao, amore, lo bacia.
Ciao, si lascia baciare.
Un bacio che fugge. Un bacio di chi è abituato ad appartenersi.
Cecilia, questa tavola è meravigliosa!
E iniziano a parlare di posate d’argento, mai viste prima. Filippo sorride. Dieci anni fa, Viviana dava del “lei” a sua madre, la chiamava “signora”. Ora la tratta come se fosse sua sorella. Ma lui dormiva, e loro erano lì ad aspettare che si svegliasse. Insieme. Lei non ti ha lasciato un attimo, gli ha raccontato Cecilia. Nessuno gliel’ha chiesto, le ha risposto lui. Ed è ancora dello stesso parere. Nessuno gliel’ha chiesto. Poteva andarsene. Poteva scoparsi qualcun altro. Poteva sposarsi, fare dei figli. Forse, se non ci fosse stata al suo risveglio, l’avrebbe amata. Perché si finisce per desiderare, puntualmente, quello non c’è. O quello che non c’è più. È risaputo. Da piccolo voleva progettare case, adesso progetta di darle fuoco. No, non a Viviana; ma alla sua, di casa. A questa casa addobbata a festa, alle luci a intermittenza; a sua sorella, annoiata, sul divano, che vorrebbe mandare al diavolo la cena di famiglia e uscire con uno dei suoi fidanzati. Vorrebbe bruciare la Gazzetta dello sport di suo padre. E quel cellulare che non sapeva cosa fosse e che ora non usa. Questa casa è il tempio della sua assenza. Un monumento alla sua memoria.
Ma Viviana c’era. Ha trovato il tempo di esserci. Perché nel frattempo è diventata un medico. Si è laureata poco prima che lui uscisse dal coma. Gli ha mostrato le foto, era bella, quel giorno lì. Ma a lui non importava. Tu mi hai dato la forza per andare avanti, grazie a te ho scelto di fare il medico. gli ha detto, qualche tempo fa. Ma lui non le ha dato alcuna forza, lui dormiva. Lui non ha scelto. Filippo non l’avrebbe aspettata. E non l’aspetta. Va avanti, arranca verso il niente. Da solo, mentre lei sorride. Mentre lei lo ama. Ma ama il Filippo di quell’ultimo anno di Liceo, quello delle panchine imbrattate, quello del sesso sulla spiaggia. Non quello che, oggi, non la porterebbe più lì.

 

Trentotto!
È lo zio Giacomo, il marito di zia Valeria. Sempre lo stesso, lui. Con la sua pancia sporgente e pochi capelli in testa. Era simpatico, allora. Forse lo è anche adesso. A Filippo non importa saperlo. È in un angolo, a guardare quei numeri, a detestarli. A far finta di prestare attenzione a quelle cifre urlate a gran voce, mentre la televisione canta brani di Natale ormai noti.
Sessantasei!
Settantasei?
No… sei sei! Sei sei!
Scandisce bene quel numero. Anche zia Sonia è sempre la stessa. Non sente bene, forse. O è solo la sua parte, quella di far ripetere i numeri più volte. Forse fa soltanto parte della tradizione della loro famiglia. Lei è la zitella di casa. È la più piccola tra le sorelle. Ha quarantasette anni. Due in meno di Cecilia. Ed è grassa, grassa e unta. I suoi capelli gialli sono unti, le sue mani enormi sono unte.

 

 

Quarantaquattro!
A Filippo la tombola piaceva. Ma prima, sui numeri, mettevano le lenticchie. Ora abbassano la casella. Ora è noioso. Ora non bisogna fare attenzione a non muovere troppo il tavolo, ora non bisogna richiamare i cugini più piccoli per farli stare fermi. Il fatto è che non sono più piccoli. Ora sono grandi e silenziosi. Nessuno fa i capricci per quel pandoro conservato fino alla mezzanotte. Nessuno canta le canzoni di Natale, quelle sempre uguali, quelle che tutti sanno. Gingol bel gingol bel, gingol on du vuei!, Angelina la cantava sempre. E rideva quando i suoi nipotini le dicevano che non conosceva l’inglese, che doveva imparare da loro. Ma io sono vecchia!, diceva. E strizzava l’occhio a Filippo, solo a lui. Ora nessuno soffia per far spostare quelle lenticchie e poi incolpare qualcun altro. Nessun genitore richiama i propri figli per quello zucchero a velo sparso sui pantaloni scuri e pesanti. È decisamente un Natale nuovo, un Natale che non ha senso. Un Natale che Che ore sono?, Le dieci e mezza, Ancora?.
La mia età… venti!
Qualcuno ride. Qualcuno finge. Giacomo si compiace della sua battuta, di quelle risate riscaldate.
Non fare il cretino, vai avanti, è sua moglie.
Ti piacerebbe, brutto rincoglionito!, gli avrebbe detto Angela. Filippo la immagina a capo tavola, a sgranocchiare noccioline e a prendere in giro tutti. Manca. Manca come le sue lasagne, rosse e fumanti. Manca come mancano le cose che contano. Come manca la voglia di continuare, di giocare a tombola, fingendo di divertirsi. Manca come pioggia sulle mani, come l’aria, come un destino al suo futuro. È nell’aria. Gli sembra di sentire la sua risata. Gli sembra di vederla, con i suoi capelli grigi e il suo grembiule a fiori. Gli sembra di vedere i suoi occhi complici. Angelina non c’è. Angela è morta e, sottoterra, si starà rivoltando perché la sua famiglia è incollata, non unita. Come un vaso rotto e rimesso insieme. Come un uomo a cui hanno trapiantato il cuore. Non ha più il suo. La sua famiglia non ha più il cuore. Filippo non ha più un cuore.

 

Due!
Ugo sbadiglia. È rumoroso. Sembra un bimbo. Anche a lui la tombola piaceva. Ma, forse, adesso non più. Cecilia lo colpisce col gomito. Lui cerca di ridimensionarsi, ma ormai il danno è fatto.
Novanta!
Cinquina!
Viviana sorride festosa. Ha fatto cinquina. È felice. Lei è felice con poco, Filippo non sa con cosa lo sarà mai. Sa che ora non lo è. Non ora e qui. Non in mezzo a tutti questi estranei.
Amore, guarda!
Gli mostra quella cartella rettangolare, con i numeri abbassati, tutti in fila. Filippo le sorride poco convinto. Sabrina guarda l’orologio. Vorrebbe andar via.
Procediamo!
Giacomo sorride, come a voler coinvolgere anche le pareti, i mobili, l’albero traballante e le tende chiare.
Ottantotto!
Scusate, ma il diciassette è già uscito?, è zia Sonia, lei non sente.
Si, Sonia, da un bel po’, è Cecilia, seccata.
Ottanta! Tutti con l’otto ‘sti numeri!
Shhh, è la moglie, sempre lei.
Ottantadue!
Vorrebbe aggiungere qualcosa, ma tace. Lo guarda prima che possa anche pensare di dire o fare qualcosa che non sia rimettere la mano in quel sacchetto ed estrarre il prossimo numero. Si sforzano di vivere il Natale. Si sforzano di avere voglia che sia Natale. Filippo ha abbassato poche caselle. Forse non è la sua serata fortunata, forse non ha ascoltato quella voce prepotente che continua a blaterare numeri e battute d’emergenza. Per risollevare le bocche. E l’entusiasmo, soprattutto.

 

Tombola!
Tesoro, ma vinci sempre tu?
Sono forte io, nonna!
Che ne dici di sederti accanto a me e di dividere le spese e i guadagni?
Ma tu non vinci mai! Io non guadagno niente!
Furbo, il ragazzino! Devi fare politica tu, sei sveglio.
Perché? La politica è furba?
La politica no, ma i politici si.
Allora da grande faccio la politica e tu vieni a lavorare con me!
Ma io non vinco mai…
Non fa niente, sei la mia nonna!
Mi sa che non sei portato…
Perché?
Hai il cuore di burro. I politici non ce l’hanno.
Che vuol dire?
Vuol dire che, forse, da grande, è meglio se fai lo scrittore.

 

Oggi non vince. E non vince nessuno. Viviana sorride ancora. Sabrina guarda l’orologio. Ugo sbadiglia. Sonia tocca i suoi capelli unti. I suoi cugini stanno zitti. L’albero sta per crollare e Filippo si alza in piedi.
Che fai, tesoro?, è Viviana.
Resta zitto. Li guarda.
Non mi va più di giocare, risponde poco dopo.
Ma tu amavi la tombola!, è zia Valeria.
Mi avete rotto i coglioni, ed esce.

 

Dove sei?
A casa di mia suocera, poi abbassa la voce, Non sai che palle.
Io sono scappato di casa.
Scappato di casa?
-Poi ti racconto. Ci vediamo?
Ok, va bene. Ora invento una scusa ad Anita e vengo.
Va bene.
Passo a prenderti io?
Lo sai che non salgo in macchina. Vediamoci al pub all’angolo di via Garibaldi. È il posto più vicino che possa raggiungere a piedi.
Dammi dieci minuti.
A dopo.

 

Fabio è solo più muscoloso e più invecchiato. Ma è come dieci anni fa. Corre ancora con la sua moto, ne ha una nuova, di più grossa cilindrata. Corre e si sente vivo. Beve birra e fuma le sue Marlboro rosse. Le donne gli correvano dietro e lui se le scopava perché ne aveva voglia. Senza pensare, senza conoscerne i nomi, senza mai innamorarsene. Rideva di loro, di Filippo e Viviana. Siete noiosi, diceva. Ma io la amo, gli rispondeva Filippo. E non si capivano. E non si incontravano mai. Sono sempre stati diversi. Io non studio per domani, tanto non m’interroga, Io studio, perché non si sa mai. Diversi e irraggiungibili. Senza toccarsi mai, senza mai occupare uno spazio, nello spazio dell’altro. Forse l’amicizia vera è questa. Fabio ha pianto quando Filippo si è risvegliato. E per lui ha sentito subito un affetto sincero. Ma non ricordava chi fosse, adesso si. È sempre stato in ritardo. Anche ora che lo aspetta, nel pub di via Garibaldi. Anche oggi, come allora, in ritardo e distratto. E anche coglione, come prima.

 

Fabio, sei preparato almeno oggi?
No, prof, oggi no.
Ah, oggi no. Perché, lo sei mai stato?
Se conosce la risposta, perché me lo chiede?
E tutti a ridere. Tutti a considerarlo un leader. Farò l’avvocato, cosi gli faccio vedere chi sono, diceva. Oggi lavora in una piccola fabbrica di scarpe. Oggi prende un milione e ottocento mila lire al mese. Sono novecento euro. Filippo non si è ancora abituato, prima che entrasse in coma, c’era ancora la lira. E con mille lire comprava le chewin-gum che gli piacevano tanto. Ora non sono più nemmeno in commercio.

 

Eccomi, scusa il ritardo.
Non preoccuparti. Ci sono abituato. C’ero abituato.
Gli sorride, ordina una birra, slaccia un bottone della camicia, abbassa la zip della giacca di pelle nera. Fa caldo. Ha corso, ha inventato una scusa ad Anita, ha dato un bacio a Gaia. È tutta sua madre. È una scusa per non raccontarsi che è anche sua figlia. È immaturo, Fabio. È bello e immaturo.

 

Ti sei sposato?
Non l’avresti mai detto, eh?
No, mai.
Ti avrei voluto come mio testimone, ma non c’è stato tempo. Non ho potuto aspettarti.
Come si chiama lei?
Anita.
Ed è sicuramente bella, le tue donne sono sempre state belle.
È bella. Era bella ed era incinta.
Sei papà?
Sono papà di una bambina.
E tua figlia è bella?
Mia figlia è come sua madre. Sono uguali.
E come si chiama?
Gaia. A me fa schifo. Il nome, dico. È un nome brutto.
Come avresti voluto chiamarla?
Non so. Non ci ho mai pensato, non ho mai pensato di avere figli. Non a ventitré anni.
A me piace Gaia.
Ho lasciato che fosse Anita a sceglierlo. Te l’ho detto, sono uguali, si appartengono.
Appartiene anche a te. È tua figlia.
Appartiene di più a sua madre. Ha anche il nome che voleva lei.

 

Fabio che passa la sera di Natale a casa dei suoceri, mangiando quel pandoro che macchia le sue camicie impeccabili con lo zucchero bianco, mentre cerca di addomesticare una bimba di sei anni che ha sonno. Filippo non lo immagina. E non perché dormisse mentre il suo amico ha messo incinta una donna e poi ha dovuto sposarla. Non lo immagina perché Fabio non è così. Fabio va a ballare fino all’alba, poi dorme fino alle tre del pomeriggio. Ascolta quella musica che fa casino, mangia schifezze, ma poi si massacra in palestra. Cura la barba e i capelli, sa di piacere. Fabio non cambia i pannolini, non va a letto alle dieci, non scopa con una donna sussurrandole Ti amo. Lui non è noioso. Nella vita si cambia, ora sono padre, lo ripete sempre. Ma è poco convinto. E poco convincente, anche. È poco virile quando lo dice, Filippo gliel’ha fatto notare, lui c’è rimasto male.

Tra poco è Natale. Tra poco si scarteranno i regali, i bambini aspetteranno la neve e le nonne prepareranno il pranzo. Manca meno di un’ora. Fabio beve una birra, sorride, guarda una cameriera con la minigonna. Filippo sorseggia una cioccolata calda, tanto ormai la pancia ce l’ha. Tutto il resto cambia. Tanto il resto cambia. Anche Fabio. Il mondo è strano. È eccessivo. O tutto o niente. C’è chi resta uguale e ne va fiero. Chi cambia e non ricorda com’era prima. E chi fa finta di essere diverso. Fabio, quel culo tondo, lo guarda esattamente come avrebbe fatto dieci anni fa. Magari eviterà di portarsela a letto, stasera. Perché è Natale, perché Gaia forse si starà chiedendo dove sia andato il suo papà, perché Anita lo ama. Posso capire che ami i tuoi muscoli, ma come fa ad amare la tua testa?, glielo domanda spesso, Filippo. E ride. Ma forse è serio. Forse non scherza. E Fabio lo sa. Ci bevono su. La conosci, Anita. Lei vede il buono che c’è nella gente, risponde lui. In realtà l’ho vista poche volte, non la conosco, puntualizza Filippo. No, non la conosce. Sa che è bella, ha degli occhi grandi, color nocciola. Belli e puliti. Coraggiosi. Ma non sa altro. Sa che sta con il suo migliore amico, quindi è una donna con le palle.
Andiamo a ballare?
Ma figurati, no, non mi va.
Sembri un vecchio.
Dai, tornatene a casa, hai una famiglia.
Ma loro possono aspettare, io voglio passare una serata con un amico.
Ti ho fatto perdere già troppo tempo, è meglio se vai.
No. Restiamo qui, prendo un’altra birra.
E giù a parlare di tutto e di niente, delle cose che vanno, di quelle che non vanno. Di donne. Di donne che restano, di donne che sanno amare. Le donne sanno amare davvero, noi uomini siamo diversi, è Fabio. È una scusa, risponde Filippo. Però forse ha ragione. E questo gli fa paura. Lui non è più in grado di amare. Non Viviana, non quella sua cicatrice sulla fronte, non quei capelli lunghi e pesanti o le sue mani ruvide. Non ha voglia di dirsi che amerà un’altra, che è possibile amare un’altra. Forse tutto sta nel desiderio di scoprirlo, nella voglia di saperlo. Non ce l’ha. E non ha voglia di pensarci.
Tua sorella è diventata carina, è cresciuta molto.
Se non fosse che viviamo sotto lo stesso tetto, avrei dimenticato persino che si tratti di mia sorella.

 

È passata la mezzanotte, è Natale. La gente sorride, si sentono Auguri in sottofondo. Auguri un cazzo. Auguri per un giorno che riempirà lo stomaco di cibo e disinteresse. Auguri per un giorno di panettone e tombola. Per un giorno di Grazie, è bellissimo, ma quel regalo fa schifo e non è educato dirlo. È un giorno per fingersi felici, un giorno per mangiare lasagne indurite ai bordi. È Natale, quello dei bimbi che ottengono ciò che vogliono. È Natale per Angela, che brinda da qualche altra parte. È Natale per ricordarsi che ci si vuole bene.
Domani mangio da mia suocera, di nuovo. Che rottura di coglioni.
Natale è questo, far finta di sopportare i capricci di una bambina, è il finto perbenismo di donne di mezza età, è i giornalisti che augurano Buone feste e subito dopo raccontano che sono morti otto italiani in guerra.
Domani sarò a casa, ma spero non vengano i miei parenti. Credo che andrò al cimitero, da mia nonna.
Natale è anche salutare i morti e pretendere che ti stiano ad ascoltare. Tornare a casa e sentire che qualcosa manca. Manca tutto e niente. Niente e tutto. È Natale e si dà l’elemosina alla giovane donna col cartello in mano, appena fuori dal supermercato, “avere tre figli a casa da dare mangiare, aiutare me”. Lei una casa ce l’ha, almeno. Filippo no. Vorrebbe perdersi solo per essere ritrovato. Ma non dai suoi genitori, non dalla sua fidanzata. Ma da qualcuno che gli dica che si è risvegliato nel posto sbagliato. O nel corpo sbagliato. Dieci anni e non riconoscersi più. Dieci anni e fingere che non sia cambiato niente. E forse non è cambiato niente davvero. Io non sono più io, l’ha urlato, ma era da solo in casa. Forse c’era Sabrina, ma ascoltava la sua musica nelle sue cuffie, era distratta. Lei è sempre distratta. O disinteressata. Del resto, suo fratello è mancato per dieci anni. Ora torna e vuole essere ascoltato. Troppo comodo. È sempre troppo facile partire, tornare è complicato.

 

Inutile chiederti se vuoi un passaggio in macchina…
No, infatti, torno a piedi.
Salutami i tuoi e tua sorella.
E tu Anita e la piccola.
Forse Fabio non andrà a casa. Forse si scoperà la tipa del bar. Filippo si, andrà a dormire. Senza dare spiegazioni, senza pretese. Non vuole essere capito. Tanto non ci riuscirebbero. Ognuno capisce se stesso, forse. Se ne ha voglia, se ne ha il coraggio. Non sa se ce l’ha. Forse eviterà di dirsi che questa vita gli fa schifo. È un ingrato, ha avuto un’altra possibilità, non capita a tutti. Capita a pochi, precisamente a nessuno. Lui è l’eccezione che conferma la regola. Ma magari non voleva esserlo. La vita è una puttana. Ti mette con le spalle al muro, ti sceglie, ti fa schiantare contro un camion, ti manda in coma per dieci anni e poi ti sorride, Ti ho dato un’altra possibilità, ti dice. Un’altra possibilità per fare cosa?, si chiede lui. Forse per fare l’amore, è bello fare l’amore. Forse per mangiare, mangiare fino a riempirsi lo stomaco e la bocca, fino a vomitare. È bello essere ingordi. Forse per mandare sms col cellulare. È divertente pensare che un pensiero si possa spostare con tanta facilità da un posto ad un altro. Scrive un messaggio, Vaffanculo. Lo invia a un indirizzo qualunque. Spera arrivi alla vita, la sua. Ma non le arriverà. E lui sta per tornare a casa. Vaffanculo. Te la potevi risparmiare la tua seconda possibilità.

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