IO BASTO A ME STESSO – capitoli 3 – 4

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Capitolo 3

 

A Filippo piace il pesce al forno. E a lei piace cucinarlo per lui. A lui non piace più. Lei non lo sa. La tavola è piccola e ben ordinata, le posate lucide e i bicchieri di vetro. La tovaglia è blu. Anche la candela. Aspetta ad accenderla, è ancora presto. Guarda l’orologio più volte. È presto, si ripete. Vive lì da sola ormai da tanti anni, da quando ha lasciato la casa dei suoi, per frequentare l’università. Prima divideva l’appartamento con un’amica, che adesso si è trasferita a Londra. Qualche volta le telefona, ripete sempre Of course, sorride per ogni cosa, parlano del tempo, della pioggia, dei temporali che increspano le acque del Tamigi, Fa caldo, No, qui a Londra no. Il tempo cambia le persone, le allontana. Le trasforma in quello che sono. E parlare del tempo assottiglia il tempo per le domande impolverate, Cosa siamo diventati?, su tutte. E una risposta non c’è. E, quando manca la risposta, non ha senso porsi la sua domanda. È pigrizia o è paura. È il terrore di scoprirsi incompatibili e diversi da come ci si era immaginati, vissuti, parlati o taciuti. Ma Viviana non ci fa caso. Abbiamo ognuno i nostri impegni, si ripete. E si perdona. E si giustifica. Lei la pensa davvero cosi, ci crede. Il tempo non l’ha scalfita. Il tempo non l’ha rotta. Non le ha rotto le ossa. Non le ha rotto il cuore. Ha portato avanti la sua vita. Con i suoi programmi, più o meno tutti annotati su un’agenda di fortuna. L’università, la laurea, la specialistica. È metodica. Ha passato tutti i suoi giorni con lui, ad aspettarlo, con un libro sulle gambe, una cicatrice in fronte, la riga dei capelli al centro e gli stessi orecchini, che non cambia mai. Piccoli e insignificanti. È come se non ci fossero. Si sono mimetizzati con la sua pelle, sono la sua pelle. Lei è quegli orecchini. Il vento la sposta, ma non l’allontana da se stessa. O cade e non se ne rende conto nemmeno. Lei è quella riga al centro, che non cambia, che resta immobile. Lei è quel pesce nel forno. Quel pesce che dieci anni fa era il piatto preferito del suo ragazzo. A lei non è mai piaciuto granché, ma a lui si. Si accetta tutto. Si condivide poco. Lei ha accettato quel piatto. Lo mangia con gusto. E si è convinta che sia buono. Lei è quel pesce che si raffredderà perché lui arriverà in ritardo. Perché lui non ha più voglia di esserci.

 

A cosa pensi?
A niente. A noi.
A noi?
A noi da vecchi. Tu c’immagini da vecchi?
Non ci ho mai pensato.
Tu sarai un bel vecchio.
Come fai a dirlo?
Non so, t’immagino con i capelli bianchi e gli occhiali. E magari con i baffi.
Io non riesco ad immaginarti. Ma credo che sarai bella come ora.
Chissà se invecchieremo insieme.
Perché non dovrebbe essere così? Nella vita succede quello che noi vogliamo che succeda. E io voglio te.
Ne sei sicuro?
E ne era sicuro. E lei si è convinta che avesse ragione. Nella vita succede quello che vogliamo. Poi bisogna aggiungere qualche imprevisto. Qualche giorno non messo in conto. Qualcuno che se ne va. Qualcuno che torna. Qualche discorso non capito, non fatto, non concluso. Qualche segreto nascosto. Qualche paura non affrontata. Qualche cambiamento evitato. Qualche risposta non data. Qualche domanda non fatta. Qualche piatto freddo. Qualche Natale non festeggiato. Qualche ricordo rimosso. Nella vita succede quello che noi vogliamo che succeda, più qualche incidente di percorso.

 

Amore, stavo iniziando a preoccuparmi. Non arrivavi più…
C’era traffico in tangenziale.
Sei venuto in macchina?
Stavo scherzando…
Viviana ride. Lui la guarda. Era una battuta pessima. Forse non era nemmeno una battuta. Non era niente. Era una frase a caso, un modo come un altro per non risponderle, per non dirle che non ha alcuna voglia di esserci. E lei ride ancora. Che cazzo hai da ridere?, vorrebbe domandarle. Ma sorride anche lui. Forse era divertente, forse lo era davvero. Slaccia la giacca, la lascia cadere sul divano giallo, che c’è nel suo piccolo salotto. L’ho comprato con i saldi, gli aveva raccontato lei. E a lui non interessava. Questa camicia gli va stretta, ha preso qualche chilo, ha un po’ di pancia. La trattiene. La trattiene forte fino a non avere più fiato. Fa male, si arrende, se ne frega della pancia.
Guarda cosa ti ho preparato…
Mi fa schifo, lo sussurra.
Come?
No, dicevo… che buono.
Sorride di nuovo, lei. E lui abbassa lo sguardo.
Versa un po’ di vino, io vado a prendere i piatti di là.
Si.
E fa come lei gli ha chiesto. Il vino è buono, è bianco. Glielo avrà consigliato suo padre, il papà di Viviana se ne intende. Lei no. Lei non ha buon gusto in fatto di vini. E nemmeno in fatto di arredamento. Da quando va da lei, odia quei fastidiosi pupazzetti ai bordi della cappa della cucina. Un orso, un cagnolino, un gatto. C’è pure un topo. Odia anche le sedie, scomode, troppo alte, troppo strette. Non sopporta nemmeno le tende. Quell’arancione è troppo forte, l’infastidisce. Fa schifo tutto. Anche questo odore di pesce. Pesce marcio. Pesce rubato al mare per farlo felice. Pesce senza più libertà per accontentare lui, che contento non è. Non lo sarà stasera. Non con quegli animali di plastica che si affacciano sui fornelli. Non con quelle tende. Non su questa sedia scomoda e brutta. Di legno scuro, mentre il tavolo è color ciliegio. Che pessimo gusto. Che pessima casa. Che pessima serata.
Guarda che bella fantasia!
e gli mostra dei fiori disegnati ai bordi dei piatti. I piatti su cui mangeranno quel pesce marcio. Quel pesce rubato alla sua libertà.
Bella.
e abbassa gli occhi al pavimento. Brutto anche quello.
Viviana sorride, usa le presine per tirar fuori il pesce dal forno. Lo posiziona per bene nei piatti, ci mette cura, fa attenzione, si aiuta con due forchette gradi, più grandi di quelle comuni.
Ti sta bene questa camicia, amore.
Devo dimagrire.
Sei bellissimo cosi.
E devo anche ricordarmi di farmi la barba, ogni tanto.

 

Non ti piace?
Buonissimo.
In realtà ha mandato giù solo uno o due bocconi. E la sedia è scomoda, non riesce a stare fermo. Guarda quel pesce. È stato rubato al mare. Un po’ come lui. Rubato alla possibilità di tornare a casa e dire Faccio quello che mi pare. Rubato alla possibilità di sbagliare. Rubato alla sua vita, a quella di allora, che non gli è stata restituita. Gli è stato dato indietro il suo nome e la sua camera. Nient’altro. Nemmeno la sua faccia. Non aveva la barba, allora. Ora ne ha troppa. Gli è stato rubato il suo diciannovesimo compleanno, quello che dici È già passato un anno dai diciotto. Gli è stato rubato il primo giorno all’università, che tutti sembrano guardarti ma sei solo un numero. Gli è stato rubato il suo posto nel mondo. Il suo posto nella sua stessa vita. Questo pesce non è diverso da lui. Catturato, poi pulito, condito, messo in forno. Bruciato. Bruciato come gli anni che poteva ancora nuotare. E ora lei lo mastica senza pensarci. Senza pensare che ha tolto qualcosa a qualcuno solo per accontentare un uomo che non la ama più. Uno che vorrebbe che lei non fosse così com’è. Uno che vorrebbe che lei sbagliasse, solo per dirle Sei fuori dalla mia vita. Ma lei non sbaglia. Lei indossa ancora gli orecchini di dieci anni fa. Ha lo stesso odore di dieci anni fa. Uguale. Uguale a ciò che lui amava, diversa da ciò che potrebbe amare adesso. Lei è diversa da ciò che potrebbe fargli battere il cuore fino a spezzargli le parole in gola. Viviana non lo farà più balbettare. Non gli farà più dire Io… t…ti…amo. Non sarà più l’aria che respira. Sarà solo aria. Aria che, se cambia, non te ne accorgi. Il tempo non cambia le persone, sono le persone a cambiare.
Sicuro che ti piaccia?
Ti ho detto di si.
E si vergogna. Ha alzato la voce, l’ha trattata come una serva. Come una puttana. Come quella che si è portato a letto quando non riusciva a ricordarsi come si ama una donna. E non lo ricorda tutt’ora. Non sa come sia possibile.
Fili, mi passi l’acqua?
Eccola.
Forse ho messo troppo sale, sorseggia qualche goccio d’acqua.
Si, forse. Ma è buono, le sorride.
Filippo, ci sposiamo?
E la forchetta, con cui picchiava il piatto da un po’, gli cade dalle mani. Si scontra con quella ceramica bianca, ci entra dentro, si sporca, s’immerge tra il pesce e l’insalata. Fa rumore. La guarda. Forse non voleva dirlo, l’ha detto d’istinto. Forse ci pensava da tempo. Forse aspettava il momento giusto. Questo non è il momento giusto.
Sei impazzita?
Perché? Stiamo insieme da dodici anni.
Vorrebbe prendere quel piatto e buttarlo per terra. E dirle che quel pesce fa schifo. Come quella cucina, gli animali, la tenda, le sedie, il pavimento, le porte, il tavolo, le posate bianche, quella cazzo di candela che ogni tanto s’inclina e rischia di cadere. Fa schifo tutto. Fa schifo quella puzza di pesce. Quella puzza di pesce bruciato. Morto. Ammazzato per lui. Per rendere sopportabile quel Ci sposiamo?. Tu stai insieme a me da dodici anni, io dormivo, vorrebbe urlarle. Ma tace, mentre lei si alza e sposta i piatti nel lavandino. Sparecchia veloce, senza prestare attenzione a nulla. La candela torna a barcollare, s’inclina verso sinistra. Lui la rialza e la spegne.
Siamo una bella coppia.
Eh?
Dico… siamo una bella coppia.
Ho voglia di fare l’amore, Viviana. Ora. Qui.

 

La candela è per terra. Si è spenta rotolando sul pavimento, poi si è fermata, scontrandosi contro la credenza. La tovaglia l’ha spinta giù lui, col braccio. Ora sono loro la portata che imbandisce quel tavolo color ciliegio. Gli ha slacciato la camicia, gli bacia il petto. Filippo le accarezza i capelli, quasi con dolcezza, quasi avesse voglia di ricordare un modo per amarla. O di impararne uno a caso. Le allarga le gambe, le sbottona i pantaloni, li abbassa un po’. Ora la bacia, mentre le cosce di lei si attorcigliano ai suoi fianchi. Sono così stretti da essere una cosa sola. Da sembrare una cosa sola. Lei gli toglie la camicia. Gli bacia il lobo dell’orecchio, scende sul collo, gli stringe le unghie contro le spalle. Lui le toglie la maglia, le lecca quel seno ancora così bello, ancora così impaziente. Cerca di slacciarle il reggiseno, non ci riesce mai facilmente. Usa un po’ la forza, si incazza. S’inferocisce, la stringe più forte, la bacia più forte, la tocca più forte. Se lo slaccia lei. E lui glielo bacia, lo morde. Fa un verso, Viviana. È il loro istante perfetto. Vuole sentirsi sua. E Filippo sembra capirla, sembra ascoltarla. Si abbassa tutto, anche la pelle, anche gli occhi. Vuole farci sesso e basta. Una, due, tre, quattro volte. E quel tavolo si muove con loro, con i loro movimenti, con i loro sussulti, col respiro affannato. Col Ti amo di Viviana. Si muove tante volte che ad un certo punto sembra non fare più rumore. Quei pupazzetti li guardano dall’alto, mentre si mordono e si toccano. Si toccano dappertutto, a ritmo di quel movimento, a ritmo di questo silenzio ammazzato da continui sussulti. A ritmo di questo momento che sarebbe meglio se non finisse. Ci sposiamo?, No, io non ti sposo, ti scopo e basta, sei solo un ricordo che non ricordo. Sei solo un momento che avevo voglia di svuotarmi le palle e la testa, sei solo un momento che avevo voglia di farmi tornare alla mente perché ti amavo. Non lo ricordo, mi dispiace, ora vado. E non so se torno, ma resta zitto. Continua a farci sesso. E basta.

 

È stato bellissimo.
Gli accarezza il petto, mentre lo stringe a sé, sul divano. Lui è ancora nudo per metà, lei ha addosso la sua camicia nera e sudata. Filippo resta zitto, respira forte, non dice nulla.
Ti amo più della mia stessa vita.
Resta in silenzio di nuovo. Potrebbe alzarsi e andarsene, dirle che è tardi, che domani ha da fare. Ma domani non ha niente da fare. Domani non ha niente da poter fare. E vorrebbe guardarla negli occhi e chiederle di prestargli una frase da dirle. Ma lei lo stringe forte e poggia la sua testa sul suo petto. È felice perché ha tutto. E lui ha tutto quello che non vuole. Ha una fidanzata che non ricorda più. Non ci si può dimenticare di una donna che ti ha detto Ti amo e a cui tu, guardandola negli occhi, hai risposto Anch’io. Com’è possibile svegliarsi un giorno e infastidirsi perché un’estranea ti accarezza il petto. Dormire dieci anni e poi svegliarsi in un posto diverso. Fare l’amore con la tua donna e scambiarla per una qualunque. Ricordarsi dei giorni insieme e pensare che siano i ricordi di un altro. La vita è strana. Non ha senso, non ne ha affatto. Non ha logica, è insana. Vai a dormire che sei poco più che un adolescente e ti svegli che sei un vecchio. Un vecchio che ha un vuoto di parole, dentro. Un vuoto di immagini, di giorni, di baci. Di amore.

 

Sicuro che non vuoi dormire qui, stanotte?
No, torno a casa.
Finisce di allacciarsi i bottoni della camicia. Lei sistema dei giornali in una cesta. Ha rimesso la sua maglia, ma sotto niente, solo gli slip. Ha delle belle gambe. Bianche. Forse ora si aspetta che lui le dica Si, ti sposo. Facciamolo ora, dai, usciamo. Chiamo Fabio, mi farà da testimone, tu chiama qualche tua amica, sposiamoci ora. E poi torniamo qui a fare l’amore, torniamo qui a sfinirci di amore e poi domani continuiamo a farlo, ma niente. Lui resta zitto, cerca la sua giacca. Viviana ha finito di sistemare i giornali. Gli sorride.
Vado.
Ti accompagno.
Lui cammina davanti, lei poco distante. Gli mette una mano sulla spalla.
A domani, amore.
Ciao.
Apre la porta. Esce, le sorride, se la richiude alle spalle.
Ti amo, glielo sussurra, lasciando passare la voce tra la fessura che è rimasta.
Filippo abbassa gli occhi.

 

Scende solo due scalini, solo due. Non ha preso volontariamente l’ascensore. Sì, perché spera che ora gli venga voglia di tornare indietro. Di andare da lei e dirle che stanotte avrà bisogno di averla vicino. Di averla accanto. Di sentirla respirare. Di svegliarla con un bacio, domani mattina, e chiederle di stare ancora insieme.

 

Viviana non ti ha lasciato un attimo, in questi dieci anni.
Nessuno gliel’ha chiesto.
Perché dici cosi? Lei ti ama tanto.
Poteva rifarsi una vita.
Ma la sua vita sei tu.
Mamma, io potevo anche non svegliarmi mai.
Ma a lei questo non importava. Sei fortunato ad aver trovato una donna così.
Si, sono un tipo fortunato io.
Tesoro, lei ha sacrificato tutta la sua vita per te.
Io non l’avrei fatto.
Dici cosi solo perché sei arrabbiato, perché sei arrabbiato col mondo intero, con la vita.
No, io sono arrabbiato con lei che mi ha aspettato.

 

Apri, sono io!
Viviana apre veloce, si è cambiata, ha un pigiama rosa addosso. Rosa e largo. Sembra di colpo invecchiata, di colpo stanca, di colpo imbruttita.
Amore, hai cambiato idea? Dormi qui?
Devo parlarti.
Ed entra, facendosi strada da solo.
È successo qualcosa?, le trema la voce.
Lo segue, è a pochi passi da lui. Filippo si siede su quel divano giallo, poggia i gomiti sulle ginocchia, stringe i pugni.
Riguarda noi.
Lo so, forse sono stata un po’ precipitosa prima.
No, non è questo.
E allora cos’è?
Io non ti amo.
Sente il pavimento sbriciolarsi e i piedi scalzi farsi ghiaccio. Deglutisce. Saliva, poi altra saliva, poi altra ancora. Scende giù, fino a seccarsi la gola. Non parla, le manca il respiro. Lo guarda fisso come ad implorarlo di andarsene, suonare di nuovo il campanello e tornare dentro, con un sorriso e una frase diversa. Ti voglio sposare, sarebbe quella giusta. Filippo abbassa gli occhi a quel pavimento che detesta. Non dice null’altro. Non c’è niente da dire. Ti detesto perché sei ancora quella di allora, perché mi hai aspettato, perché mi ami, perché non sei cambiata, perché credi in un noi che non esiste più, questo potrebbe dirle. Si sente ridicolo e resta zitto. La guarda soltanto. Glielo deve.
È meglio se la chiudiamo qua.
Cosa stai dicendo?, le trema la voce.
Sto dicendo che è finita.
Non puoi dirlo sul serio.
Io basto a me stesso.
Che vuol dire?
Vuol dire che non ho nulla da darti e nulla da voler ricevere.

 

Viviana ha i palmi aperti sul suo volto coperto. E lui non ha alcuna pietà. Non ha pietà dei loro ricordi. Delle loro foto, dei loro baci, delle corse in bicicletta per acchiappare l’ultimo tramonto. Sono i baci di quella donna e di un altro uomo. Uno che forse era abbastanza per tutti e due. Uno che forse non si è mai chiesto se fosse abbastanza per tutti e due. Uno che distribuiva tozzi d’amore come fossero briciole di pane. È l’istante in cui si rende conto che ognuno si salverà da solo. Ognuno coi propri tempi, quando toccherà il fondo, quando se ne renderà conto. Quando non potrà far altro che chiedersi cosa stia succedendo. È l’istante in cui, parlando ad alta voce, si è reso conto che la risposta era a portata di mano. Bastava solo allungare il braccio e il coraggio, il buonsenso o l’egoismo. Bastava parlare perché le parole uscissero da sole. Non se n’era mai accorto prima. E, mentre l’ha detto, gli è stato subito chiaro. Lui basta a se stesso. E, se sentirà l’esigenza di essere qualcosa per qualcuno, se lo ripeterà di nuovo. Si dirà Io basto a me stesso.

 

Capitolo 4

 

 Diario di Filippo

 

Mi ha detto di scrivere tutto quello che mi passa per la testa. E, se non passa nulla, di camminare incontro al nulla. Mi sento una barca nel bosco. Mi sento un gatto in un acquario. Mi sento un pesce nell’acqua. Sono nell’unico posto in cui potrei essere, in cui dovrei essere, in cui potrei chiedere di essere. Sono come i bambini di prima elementare, quelli che i numeri li conoscono solo fino a dieci. Il loro mondo è fatto di quello e basta. Non sanno che poi c’è l’undici. Non sanno che poi c’è un’altra casa, poi un’altra ancora, poi un albero, poi una montagna, poi una bicicletta. Il loro mondo finisce dove inizia la certezza che non ci sia altro. Il mio mondo finisce dove inizia la certezza che ci sia altro. “Altro” ha un nome. Ma io non lo conosco. Così mi sento. Uguale e diverso da quei bambini. Io voglio iniziare là dove finisco. Nella mia testa c’è un bimbo che grida e c’è un uomo che ha paura. La barba mi spina, a volte non mi riconosco. Non sono io, mi dico. E sorrido quando poi m’immagino papà, a spiegare a mio figlio che non so cosa sia crescere. Piango quando penso che forse un giorno non saprò spiegare a mio figlio come sono diventato così come sono. Tanto un figlio non l’avrai mai, mi dico. Ed è così. Non l’avrò mai perché non saprei che dirgli. I figli si fanno con spermatozoi e parole. I figli si fanno con i discorsi già surgelati e pronti all’uso, come le pizze dei supermercati. Io sono riscaldato. Io sono freddo. Io non piango. E quando dico che piango intendo dire che mi lamento ad alta voce, ma non mi faccio bagnare da niente. Niente mi sporca, niente mi tocca. Niente mi uccide. Non muore chi è già morto. Non soffre chi è già morto. Non si congela un uomo già ghiaccio. Mi spaventa incontrare gente nuova. Mi spaventa non poter rispondere ai loro Due anni fa sono andato in vacanza a Ibiza. Io due anni fa dormivo. Non saprei cosa dire. Niente, sto zitto, sorrido. Bella Ibiza, ma chi cazzo c’è mai stato? Mi spaventa incontrare gente vecchia. Ora t’iscriverai all’università? Se non ricordo male volevi fare l’architetto. Mi legherò un cartello al collo, Io non esisto, e andrò in giro così. Io non esisto. Io sono sangue, ossa e carne. Sono come la pioggia. Cado dal cielo, mi fracasso le ossa per terra e cammino senza meta. Senza senso, senza voglia, senza niente che abbia importanza. Io non esisto e sono riscaldato. Come le pietanze della nonna, quelle che mangiavo il giorno dopo, quelle che riscaldava. Non aveva il microonde, non le piaceva. Riscaldava tutto in padella. Se vuoi ti preparo ancora qualcosa, mi diceva. Ma io aveva la pancia pienissima. E gli occhi pienissimi. E anche il naso. Pieno dell’odore di quella casa, pieno del suo profumo. Profumava di amore, mia nonna. Di dolore. Di vita vissuta, di vita piena, di vita calda. Non riscaldata. La mia Angelina, adesso, mi avrebbe preso per mano e mi avrebbe detto Sei un coglione. E io avrei riso. Lei aveva una soluzione a tutto, anche al vuoto. Anche agli esercizi in colonna di matematica. Ho la quinta elementare, ma non sono stupida. Non mi frega nessuno, ricordo quando me lo diceva. Ed era vero. Niente riusciva a scalfire la mia nonna, niente poteva farla a pezzi. Niente e nessuno, se non lei stessa.

 

Oggi sei triste.
Io non sono triste, sono diversamente allegra.
Che vuol dire?
Vuol dire che si può ridere anche senza far vedere i denti.
E come si fa?
Si fa. Non si può spiegare.
Ma voglio farlo anch’io!
Pensa ad una cosa bella…
Va bene.
Fatto?
Si.
A cosa stai pensando?
Sto pensando alla gita che faremo con la scuola, la settimana prossima. E tu?
Io sto pensando a un angelo.
Un angelo?
Mio figlio.
Tuo figlio?
Si, tuo zio. Aveva la tua età quando è diventato un angelo.
Come si fa a diventare angeli?
Qualcuno sceglie per noi. Io non volevo che fosse un angelo. Io volevo che fosse una peste. Ma qualcuno ha scelto per me. Qualcuno ha scelto per lui.

 

Mia mamma non è come lei. Mia mamma sente quello che si sente. Vede quello che si vede. Ama quello che si deve amare. Non devi convincerti di essere qualcosa, devi scoprire quello che sei, mi dice la mia dottoressa. Lei dice che sono un foglio bianco con tante frasi scritte, poi cancellate. Devo guardare in controluce e cercare di decifrare le parole, quelle di prima. Oppure scriverci sopra. Scrivere ancora. Ma non ho niente da mettere nero su bianco. Io ho solo bianco da mettere su bianco e nero su nero. Io ho solo silenzi da convertire in qualcosa, in urli, in pianti, in giorni. E di giorni ne ho tanti, troppi. O troppo pochi. Dipende dai punti di vista. Io non c’ero quando le Torri Gemelle sono cadute. Io non c’ero quando si piangevano i morti in guerra o quando la terra tremava. Io non sapevo che il mondo fosse fuori e io dentro. Credevo il contrario. Ma il mondo dentro di me è un deserto di pinguini. Con un cappotto invernale mi copro e con un ventaglio mi scanso il sudore. La vita è troppo breve per non essere felici, leggo. E rido. Rido di gusto, sì. Rido delle stronzate che si dicono. E io il conto a chi lo porto? Chi mi ridà indietro i miei giorni, i miei anni, le mie stagioni, il mio libretto universitario, il mio matrimonio, la mia macchina, i miei viaggi, il mio cane, il pianto disperato al funerale di mia nonna? Chi mi ridà indietro le parole che volevo dirle, le parole che lei voleva dire a me? Chi mi ridà la possibilità di farmi la barba con mio padre che m’insegna come si fa? Nessuno. La vita è troppo breve per sprecarla a dire cazzate, è questa la verità. Ma continuate pure con le vostre frasi ad effetto. Continuate. Fatelo per vendere qualche cioccolatino in più. Qualche libro in più. Qualche surgelato in più. Fatelo, che io vi mando a fanculo ogni volta. Ogni giorno. E su ogni cartellone in cui le leggerò, io farò uno scarabocchio e ci scriverò sopra Non credeteci. Felici non si è mai. Non sono pessimista. Sono solo riscaldato, andato a male. Ho la muffa addosso. Faccio puzza di yogurt scaduto. Faccio puzza di vita scaduta.

 

Almeno torna indietro e inventati un altro addio.
Tu sei pazza.
Io ti amo più della mia vita.
Ama la tua vita. Che io non so amare.
Mi segue dappertutto. È la mia ombra. È la mia giacca. È la mia compagnia. Mi dice che mi ama, mi dice di lasciarla di nuovo, che le basta avermi un’altra volta soltanto. Mi dice che, se servisse, mi aspetterebbe altri dieci anni. E io la mando al diavolo. Io non voglio dormire altri dieci anni, le grido. Ma non voglio nemmeno vivere così un altro minuto soltanto. Viviana è l’amore della mia vita e la odio. Mi lascia dei messaggi in segreteria, mi dice Torna da me. E io vorrei tornarci solo per prenderla a schiaffi, per dirle Scappa da me. Deve andare lontano. Deve capire che io non so amare la gente, non so amare lei. Non so perdonarla. Io non le perdono di avermi aspettato, di essermi stata accanto per così tanto tempo. Doveva innamorarsi di qualcuno, farci un figlio, trasferirsi con lui in America e mandarmi una cartolina con scritto Ci siamo tanto amati, ma tu non ti svegliavi più e io me ne sono andata. No, lei è rimasta. É rimasta per ricordarmi quello che ero. Quello che io non potrò più essere. Non potrò più essere quello che la mattina si alza alle sette senza sveglia. Oppure quello che la domenica va a Messa. O quello che mangia il pesce al forno. O quello che ride di gusto. Io non rido più. Io non piango più. Io sono di legno.
Viviana serve a ricordarmi che io ascoltavo De André. Che amavo gli animali. Che stavo bene in questa camera. Che La vita è bella nonostante tutto. Mi ricorda quello che io non so ricordare. Ricordo i fatti, ma non so giustificarli. Un po’ come quando si gioca a carte. Quando se ne fa scomparire una e poi ricompare. Non ricordo mai il trucco, ma il risultato si. Mi tornano in mente i miei cugini più piccoli, le loro bocche aperte, il loro stupore. Succedeva quando dicevo loro Scegliete una carta, poi nascondetela al centro del mazzo. Io, senza guardarla, la riconoscerò. Non so come facessi, ma lo facevo. Prendevo quella giusta, loro ridevano, lo raccontavano a tutti, Filippo è un mago. Filippo è un cretino. Ma loro non lo sapevano e non lo sapranno. Se quel gioco dovessi farlo oggi, non saprei più come riconoscere l’immagine giusta. Ma un tempo ce l’ho fatta. Un tempo sono riuscito ad amare la mia fidanzata, sono riuscito a farci l’amore e a perdere il sonno per lei. Un tempo sono riuscito a divertirmi a giocare a tombola. O a far ridere gli altri. Ma, come facessi, questo non lo so. Non ho memoria. Sono senza logica, sono sconnesso, sono interrotto. Cosa mi piaceva di lei? Ora non mi piace niente. Cosa mi piaceva di questa camera? Niente, adesso niente, allora tutto. E il perché mi è ignoto.

 

Voglio una camera come la tua!
Zitta, piccoletta!
Smettila di dirmi che sono piccola! Ho otto anni!
Dai, fammi passare, che vado di fretta!
No!
Sabrina, fammi passare, che devo uscire!
No! La tua è bella, la mia è vuota!
Tieni, ma ora fammi passare!
Cos’è?
Fammi passare e te lo dico.
E mi ha fatto passare. Non aveva niente di speciale la mia camera. Era brutta come ora. Ma, per un motivo che non so, ci stavo bene. Ci respiravo bene. Ci entravo, ora una parte di me resta fuori. Una parte di me è fuori di me.

 

Ed è fuori anche lei. Mia sorella. È uscita poco fa. Faccio tardi, ha detto. Non fare troppo tardi, le ha detto mio padre. A me diceva A mezzanotte devi essere a casa. Contaci, pensavo. Altri tempi. Altre storie. Solo che mi chiedo che tempi ci siano stati tra me e mia sorella. Sabrina dice che tarderà e le sorridono. Forse sanno che, anche se le urlassero contro, lei andrebbe avanti per la sua strada. Ha diciotto anni. Proprio come me quando ho avuto l’incidente, proprio come me quando sono entrato in coma. Potrebbe succedere anche a lei. Potrebbero chiamarci, tra mezzora, e dirci che una ragazzina vestita da puttana è stata messa sotto da una macchina. A me non importerebbe nulla. Non mi ha nemmeno salutato prima di uscire. Io non le voglio bene. Io voglio bene a quella bimba fastidiosa, quella che m’impediva di passare perché voleva che le attaccassi qualche fotografia alle pareti, perché la sua stanza fosse uguale alla mia. Ora la mia è vuota, perché la sua è troppo piena. Attori seminudi dappertutto, trucchi, smalti, cellulari, borse, tacchi, gonne, perizomi, foto di ragazze belle e finte, abbracciate e strette come alici. La sua camera è piena di una vita che non mi appartiene. Lei non si è presentata, non è mai venuta da me a dirmi Ciao, io sono tua sorella, quella che, quando te ne sei andato, aveva otto anni. Ora sono grande, metto i tacchi, il rossetto e scopo. Forse le faccio pena. Perché lei, da bionda, è diventata mora. Io da sbarbato sono diventato pieno di peli. Siamo storie diverse, percorsi diversi. Conosco lei quanto conosco la mia vicina di posto sul tram, mentre vado a pagare la bolletta della luce. Di mia sorella conosco solo il sangue, che è uguale al mio. Nient’altro. Non conosco la sua voce, non conosco le sue frasi, i suoi incroci di parole. Non conosco il ragazzo che ama, i ragazzi che ama. Non conosco nemmeno i suoi voti a scuola, so che non è brava, so che quest’anno avrà gli Esami di Stato, ma non gliene importa nulla. So che dovrei andare da lei e abbracciarla, dirle che per lei ci sono, che la difendo, che sono il suo fratello maggiore. So che dovrei dirle Io ci sono già passato, ma io non ci sono passato. Io ho preso un’altra strada e a lei non importa quale sia. Le faccio pena anche per questo, perché io ho preso un’altra strada, mentre lei sale sulle macchine dei suoi amici e corrono, sfrecciano come razzi. Ascoltano musica ad alto volume, cantano. Le faccio pena perché io sono stonato. Nella voce e nei pensieri. E anche nei ricordi.

 

Ugo?
-Si?
Dormi?
No.
Ho paura.
Di cosa?
Ho paura che possa succedere di nuovo.
Che cosa?
Ho paura che possa succedere anche a Sabrina.
Non dire queste cose.
Non riesco a dormire.
Shhh… chiudi gli occhi. Non succederà più.
Stavolta non me lo perdonerei.

 

Fabio mi fa sorridere. Dice che, se voglio, mi passa a prendere. Gli ho detto che non esco a quest’ora. Che non salgo in macchina. Che dovrebbe starsene tranquillo, abbracciare sua moglie, dare un bacio a sua figlia. Ma lui dice che scapperà, Lascio tutto, senza dire niente a nessuno. Me ne vado lontano. Io non sono fatto per fare il padre e il marito. Io non sono fatto per essere qualcosa. Io voglio essere me stesso. Vorrei dirgli Tu sei un cretino, un po’ come me. Sei uno che parla. Uno che parla, che dice, che dice senza pensare. Non è stato capace di scoparsi una senza metterla incinta. Anita è sua moglie e per lui è poco più che un peso. A volte mi sento fortunato, perché credo che io sia l’unica persona al mondo a cui voglia bene davvero. Mi vuole bene perché a me non è legato da niente, nemmeno dai ricordi. Gliel’ho detto Io non sono quello di dieci anni fa, Filippo è morto, e lui non mi ha risposto nemmeno, ha annuito, come a dire Una rottura di coglioni in meno, conosciamoci di nuovo, senza pretese. Mi vuole bene perché sono un foglio bianco per il suo racconto. Sono penna e foglio bianco. E lui per me è lo stesso. Mi dispiace soltanto che sia andata come dicevano i nostri insegnanti, quelli che gli ripetevano ogni giorno che nella vita non avrebbe fatto niente. Ma siamo pari. Del resto, a me dicevano che avrei fatto strada. E l’ho fatta. Dall’auto schiantata contro un muro, o contro un camion, o contro una bicicletta, fino all’ospedale. Ne ho fatta di strada. Lui ha una figlia. E una figlia, se ce l’hai, devi farla stare bene. Se io l’avessi, non saprei che dirle, non saprei che raccontarle, non saprei niente. Ma forse avrei un buon motivo per ricominciare. Un buon motivo per dare un senso a ciò che un senso non ha. Fabio è fortunato. Mentre lui sostiene che il fortunato sia io, Sei vivo, manda al diavolo tutto, scappa dall’altra parte del mondo, rifatti una vita, scopati tre donne al giorno e ricomincia da capo. Ricominciare cosa?, rispondo io. E lui sta zitto. É superficiale, Fabio. Si pompa i muscoli e beve birra. E poi dice La vita è una soltanto e io la sto passando a riparare scarpe. Doveva fare l’avvocato e sistema scarpe. È messo anche peggio di me. Io dormivo e ora sono sveglio. E tra poco tornerò a dormire e avrò gli incubi, perché ho paura che sia per altri dieci anni.

 

Fabio? Ti sta squillando il cellulare!
Sono ancora sotto la doccia! Chi è?
Amedeo!
Ah ok, è Sara!
No, c’è scritto Amedeo sul display!
Va be’, non preoccuparti, poi la richiamo io!
Ma Amedeo era davvero Sara. Nel senso che Amedeo non esiste. Nel senso che, quando Amedeo gli scrive Voglio fare l’amore con te, in realtà è Sara. Anita, se trovasse quei messaggi, potrebbe pensare che Fabio sia gay. Invece ha solo poca fantasia. A questo punto, chissà che Arturo, in realtà, non sia Giovanna, o che Gaetano non sia Maria. Ha un solo pensiero, Mia moglie non me la dà mai, ha sempre mal di testa, Anita è una rompiballe. E la tradisce solo per arrivare a casa meno nervoso. Lo fa per lei. Anita è una bella donna, non andrebbe tradita.

 

Se vuoi ti presento Orazio.
Orazio?
Orazio è Olga.
Ah, Olga. Ti sei stufato di lei e la passi a me?
No, è che è sposata e ha due figli. Insomma, un’altra rompicoglioni. Mi ha chiesto quando lascerò Anita per lei.
E tu?
E io niente, sono sparito. Lei crede che io sia un avvocato e che sono fuori per lavoro.

 

Filippo non ha mai tradito Viviana. Io, invece, sono andato con una prostituta. Ma l’ho fatto per lei, per capire se ci fosse qualche differenza tra una puttana e la donna che amavo. Nessuna differenza. Io non tradisco. Io sono diverso da Fabio. Lui è nato sbagliato. Io mi sono sbagliato con gli anni, col sonno, col niente. Lui ha scelto di non imparare ad amare. Io non so proprio farlo, sono impedito. Io sono handicappato. Fabio va a letto con le altre perché Anita non gliela dà. E lui non le ha mai chiesto il perché. Le ha sempre detto Io esco, non aspettarmi sveglia. Un marito deve parlare, due persone che si amano devono parlare. Ma è la storia della nostra vita. Quando l’amore è da una parte sola, parla solo la parte che ce l’ha, l’altra metà ascolta ma non sente. Io non sento. Fabio non sente. Noi non amiamo. Noi siamo vittime di noi stessi. Lui ha una figlia di sei anni, ma sembra un adolescente. Io riempio il corpo di un adulto, ma ho i pensieri traditi di un diciottenne. Siamo numeri. Numeri confusi, sbagliati, numeri senza che i conti tornino. Siamo quello che la matematica non sa insegnare. O non può. Siamo uomini irrisolti, siamo uomini nodosi. Persi nella tempesta, persi in mare aperto. Non abbiamo ancore e non abbiamo zattere. Non abbiamo sogni. Io e Fabio resistiamo ai tempi avversi perché non possiamo giudicarci, perché siamo due che non hanno niente da invidiarsi. Io e lui siamo figli di destini uguali e diversi. E sappiamo che la nostra amicizia sia vera. É riuscita a resistere a tutto, anche a dieci anni di coma. Anche a una figlia e a una moglie, anche alle sue amanti. Ci capiamo perché conosciamo il nostro modo di sbagliare. È umano, suppongo, ci affezioniamo a chi sbaglia come noi. Quando non si sbaglia, quando si è giusti, si diventa eroi di solitudini tradite. Io e lui non siamo eroi. Siamo coglioni. Siamo stanze vuote. Siamo immaturi.

 

Anita, mi stai esasperando.
Perché? Soltanto perché ti dico che non ce la faccio più?
Sei pesante!
E tu sei immaturo! Guardati allo specchio, cazzo! Sei un uomo, hai una figlia, sei sposato!
Non gridare che la bambina dorme!
Ah, adesso ti importa della bambina?
Va be’, con te è inutile, io esco.
Fa’ come vuoi, ma non tornare più, Fabio!
E chi vuol tornare?
Ammazzati da qualche parte, vattene a fanculo, ma non tornare.
Ma lui è sempre tornato. E lei ha sempre riaperto la porta di casa. A lui, a loro, al padre di sua figlia.

 

Mia sorella è appena tornata. Sballata e ubriaca, forse. Mia sorella non si è nemmeno accorta che la luce della mia camera è ancora accesa. Lei non s’accorge di nulla. É piena di sé, piena di tutto. Io, quando tornavo a casa, mi affacciavo sulla porta della camera da letto, dicevo Sono tornato. Lei no. Va dritta nella sua stanza, si toglie i tacchi, forse per non disturbare. Ma disturba comunque. Ha disturbato il mio silenzio. Ma nessuno le dirà niente. Nessuno le darà uno schiaffo. Nessuno la richiamerà A quest’ora non si torna, è tardi. Domani, a colazione, staranno tutti zitti. Io farò finta di non averla vista, né sentita. Io farò finta di non vedere e non sentire. Dirò soltanto No, io il latte non lo bevo. Sono passati tanti anni, ma almeno in questo sono quello di allora. Il latte mi ha schifo. E mia madre sorriderà. Vedi? É ancora mio figlio, penserà.

 

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