IO BASTO A ME STESSO – capitoli 5 – 6

definitiva1

 

Capitolo 5

La cena è quasi pronta.
Papà?
Lui è sotto la doccia.
Sabrina rimette le chiavi al loro posto, il solito, nel corridoio, vicino al portaombrelli. Ha i capelli raccolti e le labbra lucide, i jeans strappati e due libri nello zaino.
Ho fame.
È quasi pronto.
Lascia cadere lo zaino sul divano, oggi ha studiato con le amiche. Filippo non riesce ad immaginarla mentre studia. A dire il vero, non riesce ad immaginarla nemmeno quando parla, quando ride di gusto o quando sorride soltanto. A casa sorride poco, sorride quando in tavola c’è il piatto che le piace, quando Cecilia si ricorda di stirarle il suo vestito preferito, quello corto e nero. Troppo corto e troppo nero. Sorride a intermittenza, come le lampadine di Natale.
Ciao, Sabri.
Ciao, Filippo.
Gli andava cosi. Gli andava di troncarle il nome, come a ritagliarsi un angolo nella sua vita, uno spazio, un straccio di confidenza. Come a dirle Vedi? Ti chiamo Sabri, perché tu sei mia sorella. Se fossi stata un’estranea, ti avrei chiamata Sabrina. Ma tu hai il mio stesso sangue. Noi abbiamo lo stesso sangue. Lei l’ha chiamato Filippo. Con un sorriso a denti stretti e gli occhi neri di trucco e vomito. Occhi da piccola donna. Occhi da strafottente. Prende posto a tavola per primo. Ed è solo. Cecilia è ai fornelli, sua sorella accende la tv, cambia canale, non trova nulla d’interessante. Lei il telegiornale non lo guarda.

 

Alza il volume, vediamo come va la borsa oggi.
Voglio i cartoni! Metti sul sei!
Tesoro, un attimo, fammi ascoltare.
No, voglio i cartoni! Papà, metti sul sei!
Sabrina, un attimo!
A lei il telegiornale non è mai piaciuto.

 

È pronto!
Cecilia, con un movimento poco convinto, va verso il tavolo, è tutto apparecchiato perfettamente. La Coca Cola, l’acqua, i bicchieri ancora rivolti verso il basso, le posate tutte ordinate simmetricamente. Alcuni tovaglioli sparsi, nel caso a qualcuno ne servisse un altro. Nel caso qualcuno non avesse voglia di alzarsi.
Ma a me il pollo non piace.
Ecco un’altra cosa che non le va bene.
Per te ci sono delle cotolette.
Le sorride, Cecilia, forse un po’ seccata. Ma le sorride.
Sabrina non ricambia, le cerca da qualche parte, apre il frigorifero. Ha fame. Filippo le guarda. A lui non piace il latte, ma non c’è mai stata un’alternativa. L’ha sempre scansato, l’ha sempre evitato. Gli ha sempre sputato addosso. Ma non ha mai chiesto un’alternativa. È sempre stato zitto e fermo, a sorseggiare caffè e biscotti ruvidi. Biscotti sottomarca, che in bocca diventano un impasto e perdono il loro sapore. Da domani voglio che ci sia un litro di caffè e non un litro di latte, vorrebbe dire. A sua sorella non piace il caffè. Mi rende isterica, dice. Sei già isterica, vorrebbe dirle lui, ma tace. Perché teme che lei gli chieda Ma tu chi sei?. E poi si sentirebbe un estraneo. Un estraneo anche in questo tavolo grande e pesante. È l’ultimo approdo che gli resta. È un’ancora di salvezza, un faro al di qua della nebbia. È un punto di riferimento. Non chiederà niente domani a colazione, gli andrà bene come sempre.

 

Aspetta, ti aiuto io.
Sabrina non sa come si prepari una cotoletta. Quando mi sposerò, comprerò solo surgelati. E poi vedi come ti manda al diavolo lui, immagina di risponderle. È una casa piena di risposte non date. Una casa piena di risposte taglienti, come proiettili che penetrano i corpi e ne fanno cadaveri. È una casa che, pur di non stare in silenzio, si parla del carovita. Una casa che, pur di non sembrare sconosciuti, si parla di altre famiglie che non si riconoscono più. Si parla di questo o quel parente, di questo o quell’amico, del cane ammaestrato del vicino, del gatto del portinaio, del pappagallo di zia Sonia, la zia obesa e zitella. Filippo sorride, di tanto in tanto. E a volte è davvero curioso. Vuole sapere cos’è successo mentre era via, vuole sapere se la zia è stata con qualcuno. Vuole sapere se d’estate sono andati al mare, se l’acqua era fredda, se qualcuno ha guardato il cielo, sdraiato sulla sabbia. Vuole sapere se suo padre ci mette sempre così tanto a farsi la doccia, se ha mai tradito sua madre, se fanno ancora sesso. Vuole sapere se qualche volta hanno pensato che non ce l’avrebbe fatta. Se qualche volta hanno pensato al suo funerale. O se hanno smesso di piangere. E come sia possibile smettere, o abituarsene, o soltanto non accorgersene più. Vuole sapere così tante cose, da restare sempre zitto. E, col tempo, s’è risposto da solo. Hanno smesso di piangere? Si, hanno smesso. Perché il dolore è come il rumore dei vicini di casa, quelli del piano di sopra. La prima notte non ci dormi, ti rigiri nel letto, bestemmi di soppiatto; la seconda, fingi di non sentire, di poterlo sopportare. La terza, vorresti salire e urlargli contro che sono dei maleducati. La quarta, impari a conoscerli, Sono brave persone, in fondo. E, in fondo, impari a conviverci. Ci si abitua, il dolore diventa familiare. Prende un posto a tavola, mangia una coscia di pollo, sputa al caffè, occupa la sua sedia, la tua ombra. Solo che è muto, severo e trasparente. Il dolore s’infila nelle ossa. E le fa muovere. E ti fa muovere. E si va avanti. E non si piange. La sesta notte, si sale dai vicini e s’inizia a far festa, si fa baldoria, tutti insieme. La settima, diventa routine. È il gioco della vita. E poi, che siano dieci giorni o dieci anni, poco importa, cambia poco. Anzi, il dolore che dura tutta una vita è come se durasse un giorno soltanto. E, il giorno che se ne va, ne arriva un altro. Perché non basta svegliarsi per essere felici. È come se bastasse rinchiudersi in un’automobile per diventare uno sterzo, un cambio o una ruota.

 

Scusate, io inizio a cenare. Vado di fretta.
Esci di nuovo?
Si, vado da Elisa.
A fare cosa?
Vediamo un film insieme.
Cecilia abbassa lo sguardo e acconsente. È arrivato il giorno in cui i figli smettono di chiedere, il giorno in cui i figli se ne vanno e non si sa se tornano.  È arrivato il momento in cui, anche se dicessi di no, loro non ti ascolterebbero. Sabrina inizia a mangiare veloce, divora la sua cotoletta e una fetta di pane. Filippo le è seduto di fronte. La guarda. Non ha aspettato nemmeno che Ugo finisse la doccia, per cenare tutti insieme. Lui le darebbe uno schiaffo. Tu non vai da nessuna parte, le direbbe. Ma lui non è nessuno. Lui non appartiene a questo rapporto tra madre e figlia, tra una madre che mastica smalto, mentre osserva il pollo farsi ghiaccio, e una figlia che mangia come una rozza, come una donnetta rozza. Non le importa se oggi non ha visto suo padre. Deve vedere un film con un’amica. Deve andare via. Deve vedere chissà quale ragazzo. Chissà cosa deve farci. Chissà se Elisa è Mauro. O Giorgio. O Roberto. Chissà quante cazzate racconta.
Com’era?
Buona. Buona.
Vuoi un po’ di frutta?
No, mamma, scappo.
Non fare tardi.
No, tranquilla. Ciao.
Il Ciao era per Filippo, lo guarda un istante, gli sorride a mezza bocca.

 

Va’ a chiamare tuo padre, di sopra.
È sotto la doccia.
No, non sento più il rumore dell’acqua. Sarà rimasto in camera a leggere la Gazzetta in santa pace.
Filippo annuisce. Va a chiamare suo padre. Il pollo è freddo e la fame è passata. Lo mangeranno solo perché Cecilia ha cucinato per tutto il pomeriggio. Non per fame. Non perché sia bello stare tutti insieme attorno allo stesso tavolo. Filippo scompare sulle scale, Cecilia toglie il piatto di Sabrina. Sporco. Sporco di cotoletta divorata. Di cotoletta e fretta.

 

Mamma, sali!
Che succede?
Papà sta male!
E su per le scale, come se fossero una montagna, come se fossero da scalare. Come se non finissero mai. Cecilia lo conosce bene. Dopo la doccia avrebbe voluto leggere la sua Gazzetta in santa pace. Ma ora si stringe il braccio sinistro ed è accasciato per terra. È a terra come un cane, come un cane preso a calci. Come un cane abbandonato in autostrada. Ha gli occhi di vetro, il sudore sulla fronte. Sembra un bimbo che si risveglia da un incubo, in piena notte, al buio, mentre la sua mamma non c’è. Sembra un bimbo malato di paura. E, improvvisamente, agli occhi di Filippo, appare come un vecchio. Suo padre è un vecchio. Un sessantenne come tanti. Uno stanco, uno annoiato, uno che non è mai cambiato. Tuo padre ha sofferto tanto la tua assenza. Tuo padre non è forte, gli aveva raccontato sua madre. E non voleva crederci. E non perché la loro storia somigli a quelle degli altri. Per tutti i figli, il proprio papà è un eroe. E per tutti i padri, il proprio figlio è un campione. Sbagliato. La loro storia è diversa. Loro non hanno mai avuto superpoteri, né palloni da calcio di cui essere fieri. Suo padre non gli ha insegnato a segnare un goal o ad andare in bici. Suo padre è sempre stato un uomo adulto. Uno che lavora, uno che porta a casa i soldi per comprare il pane. Uno che passa. Uno che passa e che resta. Uno a cui volere bene perché È tuo padre. Ma senza sapere come spiegare quell’affetto, come manifestarlo, come dirlo ad alta voce. Ugo è una di quelle persone a cui non si dà mai un abbraccio, perché Noi siamo diversi, non siamo come quelli dei film. Ugo è un padre che ascolta e qualche volta sente. Altre volte, molte volte, no. Ugo è uno a cui non è stato concesso d’imparare a fare il padre. Perché, durante la loro adolescenza, ai figli imponi un orario da rispettare, spieghi loro cosa significhi “ammonizione”, racconti di quando avevi la loro età. Ma si impara a diventare padri quando si è uomini alla pari. Quando tuo figlio ti chiede di stare ad ascoltarlo, quando impara a chiedertelo in silenzio, quando sai spiegarti la sua arroganza e commuoverti al suo Non ho bisogno di te. È in quel momento che Filippo si è addormentato, proprio quando doveva farsi la barba per la prima volta. Era quasi ventenne, era quasi uomo. A vent’anni, si diventa uomini. A venti, s’impara a conoscersi, a riconoscersi, a darsi uno schiaffo di pace per seppellire le disarmonie dell’adolescenza. E lui non l’ha fatto, non gli è stato permesso, non gli è bastato il tempo. E ora Ugo è un altro estraneo. Uno a cui voler bene perché così si fa. Il silenzio, a volte, s’allunga oltre il sonno. Il silenzio, a volte, è eterno. E, da quando è tornato, ogni volta che ha rivolto la parola a suo padre, Filippo non ha mai saputo cosa dirgli, come dirglielo, come balbettare un Come stai?. Come appiccicare le parole al resto della loro vita. Non è vero che i bambini imparano a camminare da soli. I bambini imparano quando vedono gli altri farlo, quando hanno qualcuno da imitare. E Filippo ha imitato se stesso.

 

Aiutami!
Si, eccomi!
Filippo aiuta sua madre a sistemare Ugo in macchina. Cammina a stento, si lamenta a bassa voce. Sembra implorare aiuto, piange senza lacrime. Sembra indifeso. Vorrebbe dirgli Ti voglio bene, ora che non può sentirlo. Ora che si stringe il braccio. Poi il petto. Glielo direbbe per compassione. Perché sta male. Perché sembra un cane.
Dai, sali, dobbiamo correre in ospedale!
No, io non salgo, fa un passo indietro.
Filippo, presto! Non c’è tempo da perdere!
Vai tu, io vi raggiungo a piedi.
È lontano. Sali in macchina, dobbiamo fare in fretta!
No, lo sussurra.
Cecilia deve aver letto soltanto il suo labiale.
Filippo, papà sta male, sali…
Si stringe i pugni, ricongiunge le mani. Lo sportello della macchina è aperto, lui sembra di pietra. Non può salire. Potrebbe persino sopportare di vedere suo padre morire, davanti ai suoi occhi, ma non di salire. Il cuore accorcia le distanze dalla gola, fa avanti e indietro. Suda. Allarga i pugni e li stringe di nuovo, non ha più forza. Non ha più voce. Sente soltanto i lamenti di un malato, di un estraneo, di uno quasi morto.
Ho paura, lo dice a bassa voce, riesce a sentirsi a stento, come a chiedere un compromesso, Io ammetto di aver paura, ma tu non farmi salire in macchina. Potrei restarci secco, potrei non uscirne più. Io ho paura. Io non sono un uomo.
Cecilia sale sulla sua automobile.
Entra in questa macchina!, glielo urla forte, con tutto il fiato che ha in gola.

 

No, mamma, io dal dentista non vengo!
Filippo, non fare i capricci…
No! Non vengo e basta!
Non farmi perdere la pazienza! Conto fino a tre!
Non m’importa!
Entra in macchina!
Lo stesso tono. Le stesse gambe che tremano.

 

È salito. Cecilia parte veloce, parte senza guardare nello specchietto retrovisore. Corre. A Filippo tremano le gambe, le braccia, le mani, le dita, la voce, il respiro, gli occhi. Gli trema il cuore. Ha paura. Ha paura di morire. Ha paura che la macchina finisca in una scarpata, contro un palo, contro un’altra automobile. Ha paura che il respiro si fermi. Il petto è impazzito, sembra uscire dalla maglia a righe, blu e bianche. Sembra uscire dalla bocca. Sembra uscire dalla sua vita. Si tiene stretto. Non sa nemmeno a cosa, ma si tiene. Si aggrappa alla sua stessa pelle. C’è l’odore di quel giorno. L’odore di una macchina che ammazzerà qualcuno, una macchina che si ridurrà in pezzi. Questo odore lo tormenta, si stringe il naso tra le dita. Ma ritorna a stringersi al sedile. Stretto, come se potesse volare via, come se potesse diventare aria. Cecilia corre e lui ha paura. Guarda per terra, le sue scarpe, non la strada. Non il traffico, non il rumore dei clacson. Porta le mani alle orecchie, cerca di tapparle. Cerca di non sentire niente. Chiude gli occhi. E vorrebbe un’altra mano per non respirare la puzza di quel giorno.
Resisti, stiamo arrivando.
E Ugo fa un verso strano. Ugo fa solo un verso, poco convinto.
Filippo non vuole riaprire gli occhi. Non vuole riaprire le orecchie. È fermo e trema. E si stringe, come a conservarsi. Spera solo che tutto questo stia per finire. Spera solo di avere ancora voce, semmai servirà usarla ancora.
Ho paura, lo sussurra di nuovo.
Cecilia corre forte.
Stringe più forte le mani alle orecchie. E gli occhi, ancora chiusi, sono pieni. Si sono riempiti di paura. Sente una goccia cadere e segnare una linea sulla sua pelle. Come terra arida che si bagna. Questa lacrima lascerà un solco, lascerà il suo segno. Ne cade un’altra, dall’altra parte, dall’occhio destro.
Ho paura!, ma stavolta alza la voce.
Filippo, stai tranquillo, siamo quasi arrivati!
E spalanca gli occhi, richiamato dalla voce di sua madre.
Frena! Mamma, frena!
Piange. Gli occhi sono strabuzzi, sono giganti, fissi e immobili. Un singhiozzo rumoroso. Un colpo al petto. Piange senza riuscire a capirsi. Senza riuscire a fermarsi. Il cuore è impazzito, sale alla gola e scende.
Filippo, non agitarti. Non è successo niente.
Non correre, ho paura.
Stiamo arrivando, tranquillo.
Cosa ci facevi con quell’uomo?
Si ferma. Smette di fare rumore. Smette di respirare. Quell’uomo.
Cecilia lo guarda per un istante attraverso lo specchietto retrovisore.
Tesoro, tranquillo, ci siamo quasi, ma stavolta si rivolge a suo marito.

 

Si tratta di un infarto, dobbiamo operare d’urgenza.
Mi dica che ce la farà.
Stia tranquilla, signora. Suo marito è in buone mani.
Lo salvi, la prego.
Cecilia si siede su una sedia grigia, una sedia d’ospedale. Una di quelle che accoglie le speranze e la disperazione di chi aspetta, di chi accetta di aspettare. Di chi s’arrende all’attesa.

 

Mamma, chi era quell’uomo?
Un amico, te l’ho detto.
Dimmi la verità.
Te l’ho detta.
Cosa ci facevi con quell’uomo?
Mi hai seguita?
L’ha seguita. Quel giorno, l’ha seguita. Ormai da tempo era strana, non parlava più. Erano giorni che sembrava un’altra. E lui l’ha seguita. Ha fatto quello che fa un marito geloso. E forse era solo un figlio geloso. Un figlio attento.

 

Tu ormai sei grande.
Che vuol dire?
Vuol dire che puoi capire che la vita, a volte, è strana.
Vuol dire che hai un altro?
Filippo…
Mamma, hai un altro?
Si.
E ora sente addosso il freddo di quel giorno, lo stesso scricchiolio allo stomaco di quando sua madre gli ha risposto di sì. Quella donna che ora è raggomitolata come un gatto spaventato. Quella donna che aspetta di sapere se suo marito morirà. Quella donna che piange. Lei aveva un altro. Quel giorno. Quel giorno lei aveva un altro. Il giorno che ha sbattuto la testa contro il vetro e ha sanguinato.

 

Non dovevi seguirmi!
Filippo, ti prego, accosta e parliamo!
Non c’è niente da dire!
Ti supplico, ascoltami…
Mamma, sta’ zitta!
Non correre!
Ho detto zitta!
Io a tuo padre voglio bene, lo sai.
Zitta, puttana, zitta!
Frena, Filippo, frena!
Non ha frenato abbastanza forte. Non ha frenato in tempo. Aveva gli occhi pieni di lacrime, come poco fa. Aveva il cuore in gola, come poco fa. Aveva la voce rotta, come poco fa. Le gambe gli tremavano, come poco fa. Le mani gli tremavano, come poco fa. Il petto gli tremava, come poco fa. La loro macchina s’è ridotta come una lattina di birra, verde e accartocciata. Come una lattina, svuotata e schiacciata. Svuotata di parole e lacrime, di scuse, pentimenti e fughe. Non doveva scappare via. Non doveva lasciarla entrare in macchina. Non doveva correre. Doveva allacciare la cintura, allacciare gli occhi, allacciare la vita a qualcosa, tenerla legata, aggrovigliarla a un altro destino. Invece no. Invece ha sbattuto la testa così forte da incastrarsi nel vetro, così forte da essere sangue nel sangue. Da addormentarsi per dieci anni. Per risvegliarsi senza memoria e senza passato. Senza una vita. Senza un cuore. Senza sapere come avesse fatto.

 

Dovrei esserci io al suo posto, Ugo.
Cecilia, non dire così.
No, è la verità. Dovrei esserci io.
Nostro figlio ce la farà.
È colpa mia.
Non è colpa di nessuno, è stato un incidente. Filippo è forte.
Se non ce la farà, io…
Smettila, non serve a niente. Nostro figlio ce la farà.
Non me lo perdonerò mai.
Non hai niente da perdonarti.
Sarà nostro figlio a non perdonarmi, se sopravvivrà.

 

Capitolo 6

 

 Diario di Filippo.

 

Vorrei che sopravvivesse solo per chiedergli Perché non c’eri tu al mio posto, quel giorno?. Voglio che si senta in colpa. Voglio fargli venire un altro infarto. Voglio essere io ad ammazzarlo. Voglio lasciarlo lì per terra. Io ho fatto quello che dovevi fare tu, gli direi. Io ho seguito sua moglie, io ho scoperto che aveva un altro, io ho pianto. Io sono finito contro un muro. Io sono quasi morto. Io non risusciterò più, io non sono un santo. Una parte di me è morta quel giorno. Una parte di me è senza barba e senza anni. Senza storia, senza casa, senza fotografie. Una parte di me non tornerà. E lui ha vissuto i giorni che io ho passato senza passarli. Senza camminarci sopra. Senza poter piangere. E adesso non so più farlo. Io odio mio padre. Lo odio come si odiano gli insetti, d’estate. Come si odiano le mosche o le zanzare. Lo odio perché è colpevole. È colpevole di non essere stato al mio posto, colpevole di non aver seguito sua moglie, colpevole di non averla presa a calci sui denti. Colpevole di aver amato una puttana. Mio padre è colpevole di aver amato. E io non saprò mai farlo. Io non diventerò come lui. Io non sono come lui. Dicono che forse ce la farà. A me non importa. A me non interessa. Mio padre, forse, aveva una scusa. Una giustificazione scritta a penna. Tua moglie ti è fedele? Non lo so, io lavoro. Io porto lo stipendio a casa. Ma io me ne sono accorto. Io mi accorgevo dei suoi silenzi. Dei suoi occhi abbassati. Dei suoi piatti surgelati. Ora, forse, no. Se fosse capitato adesso, non me ne sarei accorto. Ma ora sono un vecchio anch’io. Un vecchio senza storia. Ma allora ero giovane e pulito. Ero giovane e sbarbato. Avevo tanti amici e una pizza come pegno di una scommessa. Ero attento. Ero vivo. Avevo con me tutti i miei pezzi. Ero ancora costruito magistralmente. Ora sono un palazzo ridotto in macerie, sono un terremotato. Sono un armadio senza ante e senza piedi, storto, sporco e con pochi vestiti addosso. Sono un sopravvissuto. Un reduce di guerra, che è rimasto in panchina. Sono un malato senza cura e senza coperte. Sono al freddo. Ma allora no, allora ero bello. Allora vestivo bene. Sorridevo alla mia vicina di casa, l’aiutavo a portare la spesa, mi regalava cinquemila lire e ci compravo una pizza da mangiare al mare, con lei. Con quella ragazza che sapevo amare. Ora, quando incontro la mia vicina, cambio strada. Lei ha meno ossa e meno forza. È vecchia, ha ottantatré anni. È stanca. Ma ora non l’aiuto con la spesa, non l’aiuto con il peso. Non ho voglia. Ora non mi regala più le cinquemila lire di allora.
Al posto mio doveva esserci mio padre. E io gli sarei stato riconoscente. L’avrei portato fuori a fare una passeggiata. Gli avrei raccontato cosa ho fatto nei dieci anni in cui è stato in coma. Non gli avrei detto Mi sei mancato, gli avrei detto Non ci mancheremo più, ora non ci mancheremo più. Sono un uomo, sono diventato come te. Io avrei vestito questa casa a festa, avrei fatto diventare mia sorella una donna, non un manichino di rimmel e tacchi. E non avrei saputo che mia madre è una che va a letto con un altro. Una che tradisce. Una che diceva di essere al lavoro e invece si scopava un altro uomo, in un altro letto, con una fede al dito e una croce al collo. Io ho pagato le colpe dei grandi. E mi hanno fatto invecchiare senza regali di Natale e senza le serate al pub con gli amici. Mi hanno fatto invecchiare senza rughe e senza ricordi. I figli non sono dei genitori. I figli sono della strada, della loro pelle, delle loro paure. I figli sono dei giorni che ricordano e di quelli che è meglio non ricordare più. I figli sono della vita che scelgono di vivere e sbagliare, dei treni persi e dei viaggi seduti sugli scatoloni, pieni di rottami. I figli sono dei figli. I genitori dei genitori. Ma loro sono egoisti. Loro vanno a letto, ti partoriscono e poi pretendono che gli appartieni per sempre. E, quando sbagliano, ti dicono L’abbiamo fatto per te. Quando c’azzeccano, per caso o per fortuna, ti ripetono L’abbiamo fatto per te. Quando restano fermi a guardarti sfiorire, si giustificano L’abbiamo fatto per te. Mio padre non ha fatto nulla. Mio padre ha lavorato e ha letto la sua Gazzetta. Mio padre ha riempito spazi. Ha un posto a tavola, un posto in camera da letto, un posto tra gli spazzolini da denti, un posto sulla poltrona, in salotto. Mio padre è un armadio, come me. O un soprammobile. È un vaso pieno d’acqua, ma senza fiori. È un vaso colorato di tinte opache. Lui è senza peccato, perché non ha mai concesso tempo a uno sbaglio. Mi sei mancato, mi ha detto una volta soltanto, è uno a cui manca la gente. Ma che non s’accorge di niente. È finita l’acqua, vai a comprarla, e lui ci va, ma è mia madre a dirglielo. Mio padre è un vaso che andava spinto a terra per capire se avrebbe resistito all’urto. Ma è rimasto fermo, in salotto, pieno d’acqua e vuoto di fiori. Vuoto di attenzioni. È un vaso pieno di polvere.

 

L’intervento è andato bene, ma non è fuori pericolo.
E mia madre piangeva, disperata. Mia sorella l’ha abbracciata. É arrivata con calma, quando è finito il suo film. O quando ha finito di scopare. Io guardavo la mia mamma e la odiavo. Vattene, lascialo solo, lascialo solo come un animale. Tanto l’hai già tradito, volevo urlarle. Volevo dirle che avevo ricordato. Che mi ricordo di lei e di quell’uomo. Che è ridicola. Che le è rimasto qualche graffio in superficie, mentre i vetri, a me, sono entrati nel cervello. Volevo urlarle che è una puttana. Volevo urlarle che poteva anche smettere di piangere e sentirsi libera di non essere più moglie. Nemmeno più madre. Io non ho più un papà, non ho più una mamma. Non ho più radici, non ho nemmeno una lapide a cui portare fiori. O su cui sputare. Lei piangeva e io volevo fare quello che non ha fatto suo marito. Volevo strattonarla. Spingerla per terra. Darle dei calci alla pancia. Volevo farla piegare in due dal dolore, e non farmi intimidire dalle sue grida. Dirle Io so tutto, io ricordo tutto, e continuare. Ricordo i suoi occhi. Piangeva. Era stata scoperta. Era nuda, era sporca e nuda. Era quello che io non immaginavo potesse essere. La mia mamma è una che dice di essere al supermercato, invece è in una camera d’albergo. Mia madre è una che la domenica si alza per prima, per preparare un pranzo degno del giorno che è. Mia madre è tra le braccia di un altro.

 

Mi hai seguita?
Si.
Mi dispiace.
Ti dispiace?
Non volevo che andasse così.
E come volevi che andasse?
Non urlare.
Ti ho chiesto come volevi che andasse!
Lo so che adesso mi odi. Ma non sono un mostro.
Le interessava che ai miei occhi non fosse un mostro. Le interessava avere la coscienza pulita. Ma una donna che non muore al posto del figlio, è una che non ha un cuore. Lei è sopravvissuta a dieci anni senza di me. È sopravvissuta sapendo che io ero in fin di vita per colpa sua. Volevo gridarlo a tutto l’ospedale che lei doveva morire al mio posto. Dovevo dirlo a tutti. Dovevo farlo mentre avevo ancora gli occhi lucidi e la faccia sporca di lacrime. Ora sono asciutto. Sono asciutto di tutto. La odio soltanto. Ora che sono asciutto, la odio soltanto. Sono ruvido. Per colpa sua, sono ruvido. Sono una stagione che fa paura, sono una strada da cui nessuno passerà più. Sono una montagna con la neve e senza guanti. Sono un ricordo, per qualcuno; e un segreto per tutti gli altri. Per colpa di mia madre. Per colpa sua, io sono un posto vuoto sul tram, un’agenda vuota d’impegni, un bicchiere d’acqua pieno per metà. Per colpa sua, io sono in ritardo. In ritardo con la mia storia.

 

Ma come hai fatto a vivere per tutta la vita col nonno, se amavi Carlo?
Certe cose non si spiegano a parole.
Hai fatto finta di essere felice?
A volte. E ha volte ho chiesto a Carlo di starmi accanto.
Come gliel’hai chiesto?
Gli ho parlato. Ho guardato la sua fotografia, la sola che ho, e gli ho detto di non lasciarmi.
Ma lui era già morto.
Non per me. Non finché avrei ricordato ancora il suo odore.
E come ti aiutava?
In silenzio. I morti non parlano, ma finché il cuore balbetta qualcosa, non si è morti.
E ti bastava?
Ho imparato a farmi bastare il suo ricordo.
E cosi hai passato tutta la vita col nonno.
Si, ci sono riuscita perché ho non dimenticato. Io non sono una che dimentica. Non diventare uno che dimentica.
E mi sorrideva. Ma aveva gli occhi piccoli e lucidi. Carlo le aveva insegnato ad amare. Non ad amare lui. E lei è sopravvissuta. Volevo che fosse mia madre. Lei ha sempre saputo insegnarmi qualcosa. Anche quando stava zitta, anche quando non sapeva cosa dire. Conosceva il silenzio dei momenti giusti. Conosceva il peso delle parole e il peso del vuoto. Solo chi ha in tasca le pietre, può capire quanto sia facile andare a fondo. E lei aveva pietre e sorrisi. Un sorriso per ogni cosa, per ogni giorno, per ogni racconto. Ce n’era uno per Carlo, apparteneva a lui soltanto. Accompagnava le sue guance morbide, i suoi capelli che somigliavano alla neve e le rughe intorno agli occhi. Mi ha insegnato ad imparare, diceva di lui. E non capivo che volesse dire. Come si fa ad insegnare ad imparare. Che vuol dire, che senso ha?, mi domandavo. Non gliel’ho mai chiesto, non volevo deluderla. Non volevo deludere la mia nonna. Magari avrebbe pensato che fossi troppo immaturo per ascoltare quei discorsi, quei racconti, quei tozzi di vita. E io avevo bisogno di lei, avevo bisogno delle sue mani fredde che stringevano la lana, la sciarpa che puntualmente mi preparava, ogni inverno. Avevo bisogno di scoprire perché i suoi occhi erano scavati e profondi. Forse sono stato un egoista. Lo sono stato di certo. Ho voluto la sua vita, ma non l’ho capita in tempo. Io ho tolto a mia nonna i suoi segreti, solo perché sono stato un egoista. Forse non sono diverso dai miei genitori. Forse sono esattamente come loro. Un ladro. Loro mi hanno tolto la vista e le passeggiate, le sigarette che avrei potuto fumare, le corse in macchina, le sciarpe della nonna. Le ultime sciarpe della nonna. E io le ho tolto la sua storia. I giorni ad aspettare che Carlo tornasse e la certezza che non sarebbe più tornato. La certezza che non l’avrebbe più rivisto. Sono un ladro di vento. Ho i cassetti pieni di racconti; che, ad aprirli, ho paura. Conservo nel cuore il ricordo di quando mi ha detto Io su un aereo non ci salirò mai, ho paura. E io sorridevo, perché la mia nonna era sopravvissuta alla guerra, come poteva aver paura di un aereo?

 

Sono solo. Stasera non sentirò mia sorella rientrare e cercare inutilmente di far piano, per non svegliare nessuno. O mia madre che le telefona per accertarsi che sia ancora viva. Stasera sono tutti in quell’ospedale a pregare Dio, perché lo salvi. E io prego me stesso di alzare il culo da questa sedia e andarmene via. Vado via da te, che non sei più te, potrei lasciar scritto in un biglietto. E indirizzarlo a questa stanza, a questa casa. O alla mia vita. Potrei mettere due cose in valigia e scappare. Scappare da mia madre e dal suo amante. Da mio padre e dalla sua Gazzetta. Da mia sorella e dai suoi capelli colorati. O da questo posto, che non è il mio posto. Potrei correre e stancarmi, magari addormentarmi sopra una panchina e sperare di resistere al freddo. Quand’ero piccolo, quando la mamma si arrabbiava, mi diceva Ti porto in collegio e poi verrai adottato da un’altra famiglia. Non sapevo cosa significasse “adottato”. Ma ho imparato a immaginarlo presto. Significava che mi avrebbero tolto dalla mia stanza, dalle mie macchinine, dai miei supereroi. Mi avrebbero tolto la mia mamma, con i suoi capelli ricci e colorati. E anche il mio papà, che forse non era d’accordo che mi portassero via, ma stava zitto. E mi mettevo a piangere. Piangevo perché m’immaginavo in un’altra casa, con altri genitori e altri giocattoli. Brutti. Brutti e vecchi. E immaginavo anche dei grandi quadri, in un corridoio lungo e cupo. Immaginavo una casa che non era la mia e che mi faceva paura. E la mia nuova mamma che mi urlava Io non ti voglio. Poi suonava il campanello e speravo che non fossero quei signori, quelli che dovevano venirmi a prendere. Io sono ancora quel bambino. E temo che sia successo davvero. Magari sono io a non ricordare niente. Magari questa non è casa mia. Dovrei uscire, scappare da qui e chiedere al mondo chi sono, chi è la mia vera famiglia, chi ero prima di essere adottato. Magari c’è una mamma buona lontano da qui. Un papà attento. Magari non ho una sorella, in realtà. Così si spiegherebbe tutto. Cosi forse avrei qualcosa da cui ricominciare. Una camera con cui fare amicizia. Magari hanno un cane, un gatto o un pesce. Magari sarò felice con un’altra storia. Il sorriso non è come la febbre, non è contagioso. Se non hai voglia di mostrare i denti, vedere un altro che ride non ti farà cambiare idea, la nonna aveva ragione. E io il lutto lo porto dentro. E raccontarmi che ho un’altra famiglia, da qualche parte, è stupido. Io non ho un’altra famiglia. Io non ne ho affatto. Io sono nato dal cemento e crollerò pezzo dopo pezzo. Sono freddo come il cemento sotto il sole di gennaio.

 

La mia valigia è pronta. In realtà non c’è molto all’interno. Io non ho fotografie da portare con me. Non ho libri. Io non ho segreti. Quando si va via, ci si guarda indietro e si torna a prendere qualcosa. Magari un soprammobile. Magari un quadro. O si stacca un pezzo di parete, uno stralcio di muro, un po’ di intonaco. Io non porto via niente, solo mutande e pantaloni di dubbio gusto. Ho soltanto un paio di scarpe, quelle che indosso. E non mi piacciono i cappelli. Non ho freddo. Non sento il vento. Le mie orecchie sono gelate solo dal silenzio di questa casa. Ora la mia valigia inizierà a fare rumore, come una lavatrice che gira e mescola i pochi capi che ha all’interno. Le mutande sbatteranno contro le maglie a righe. E io m’innervosirò perché quel vuoto è insopportabile.

 

E quanto starai via?
Una settimana.
Mi porti un regalo?
Si, certo.
Divertiti, che poi si torna sui libri, hai gli esami di Stato quest’anno.
Non ricordarmelo.
Tu non te lo scordi di certo. Sei un ragazzo diligente.
Mi sopravvaluti.
Raramente mi sbaglio. Ah… ricordati di non riempire troppo la valigia. Se pesa troppo, in aeroporto ti fanno problemi.
Si, lo so.
Ma forse l’ho riempita troppo. Avevo tante cose da portarmi dietro, a diciott’anni.

 

Magari uscirò da questa casa e mi sentirò di nuovo un estraneo. Col resto del mondo, coi marciapiedi, con gli alberi che si muovono veloci, per il vento. Io uscirò da questo posto e cercherò un altro posto. Ma non lo troverò. Io non troverò il mio angolo, il mio spazio. Perché non lo trovo dentro di me. Sono come quelli che arrivano in ritardo, non trovano posto e occupano gli scalini. E fanno finta di essere comodi, ma continuano a muoversi, cercando di non richiamare l’attenzione degli altri. È la vita. C’è chi occupa le sedie migliori e chi guarda dal basso. Io guardo dal basso. Io guardo dal basso lo spettacolo della mia vita, le marionette che si muovono coi fili. Mia madre che prepara la cena e aggiunge del sale, dice È senza sapore. Mio padre che è già seduto e beve un po’ d’acqua. Mia sorella che non arriva. È il nostro spettacolo. Siamo patetici. Siamo inutili. Siamo i soliti. Ma io non sono uno di loro. Io non arrivo in ritardo, io non preparo da mangiare, non bevo dell’acqua. Io sono un estraneo. Dieci anni fa, sistemavo le posate, mentre raccontavo cosa aveva fatto a scuola. Oggi non ho una parte. Il mio personaggio sa di muffa e ragnatele. E tutti si preoccupano di dargli una sceneggiatura. Fili, prendi il formaggio in frigo, Filippo, mi passi il telecomando?, Tesoro, com’è la pasta?. Ma io non sono quello che prende il formaggio in frigo. Non sono nemmeno quello che prende il telecomando. E la pasta col pesto mi fa schifo. Io sono quello che guarda tutti e non si riconosce. Sono quello che cammina quasi sospeso da terra. Io non lascio traccia, io non ho ombra. Io sono quello che non ha una parte. Sono un fantasma. Passo il telecomando a papà e sorrido. Dico che la pasta e buona ma la lascio nel piatto, Non ho fame. Io sono quello che Sei vivo e devi ringraziare Dio di questo. Ma io non ringrazio nessuno. Quanto mi è costata la mia salvezza? Io non volevo finire in coma perché mia madre ha un altro. Non volevo finirci perché mio padre è distratto. Io volevo salvare gli altri e non dover salvare me stesso. Ché farlo con l’altra gente è facile. Farlo con se stessi no. E io ora non so salvarmi. E non ho nessuno che possa dirmi Aspetta, faccio io, ti aiuto. Ma tu in cambio devi volermi bene. Io non voglio bene. Io sono cemento sotto la pioggia battente.

 

Cos’è successo?
Ha avuto un altro attacco.
E ora come sta?
Silenzio.
Ora come sta?
Papà non c’è più.

 

 

 

 

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