IO BASTO A ME STESSO – capitoli 11 – 12

definitiva1

Capitolo 11

 

Mamma, scatti una foto a me e Filippo?
Vuoi una foto con me?, interviene d’istinto, Filippo.
Si, così la attacco nel mio diario!
Ma io non vengo bene.
Gaia s’incupisce. Le sue labbra disegnano una parentesi curva. Poggia la sua macchina fotografica sul tavolo di legno e lo guarda. È un adulto. E, come tutti gli adulti, ha già cambiato espressione, ha già dimenticato che voleva una foto con lui. Cerca i suoi occhi, lo scruta. Filippo finge di aver dimenticato, fa l’indifferente. Finge di cercare qualcosa in una tasca, poi nell’altra. Finge per non sentirsi in colpa, per non sopportare il disappunto di aver lasciato intatta una pagina di diario. La pagina della loro fotografia. Ma lui non si lascia scattare una foto da troppi anni. L’ultima risale al quinto liceo, quando si sorrideva tutti insieme alla libertà, al primo sole di maggio, al vento di scirocco che trascinava l’estate. Si sorrideva per niente. Ci si ammassava per avere uno spazio nell’obiettivo. Un angolo, uno stralcio, un ritaglio d’immortalità. Ci si spingeva e ci si chiedeva come sarebbe stato rivedersi a distanza di tempo, di abitudini e convinzioni. Come sarebbe stato attaccarsi alle pareti di una camera impolverata d’adolescenza. Ora no, non sa guardare un obiettivo. Non sa sorridere a un obiettivo. Forse non ne sopporterebbe neanche il flash.

 

Aspetta che sorrido. Se vengo bene, vi autorizzo a metterla sulla mia lapide.
Nonna, non dire queste cose!
Cosa avrò detto mai? Non azzardatevi a mettere una foto in cui sono seria!
Tu ci seppellirai tutti.
Per carità, ne ho viste tante...
Tu arriverai a cent’anni.
Con questo mal di schiena, non arrivo nemmeno alla porta.
Dai, sorridi! Ecco, così!
Sono bella?
Sei bellissima.

 

Possiamo provare. Poi, se non vieni bene, la cancelliamo e ne facciamo un’altra!
gli sorride, Gaia. Gli mostra i suoi dentini e qualche spazio vuoto; spazi d’infanzia felice e, di tanto in tanto, tradita. Oggi ha i capelli sciolti e lunghi. E sembra un quadro dipinto a mano, a olio.
Anita sorride, sulla porta. Sorride di lui. Imbarazzato, impreparato, impacciato nei suoi stessi gesti, mentre si riflette negli occhi di una bimba insistente e chiacchierona. Sembra seduto sul ciglio di un pendio. Sul ciglio di un vulcano. Con una mano, si tiene, per non cadere. Con l’altra, finge indifferenza. Anita lo guarda e lui non alza gli occhi. Dai, fa’ questa foto. Ne sei capace, glielo lascia intuire, con la faccia che sorride e i suoi occhi furbi. Furbi come quelli di Gaia. Ma Anita non parlerà. È il loro patto. Devono capirsi a gesti, hanno imparato a non tradire le loro bocche strette. Devono capirsi a frasi mozzate, come promesse concesse, è il loro motto. E Filippo sa bene cosa significhi il silenzio di Anita, ma è ingiallito. Come le unghie dei fumatori. È giallo e puzza di abitudine. Come le scarpe abbandonate sul balcone. Una fotografia è un patto col futuro, significa rivedersi ancora, trascinarsi nell’incerto per riconoscersi a distanza di tempo, di vita, di frasi interrotte come destini bugiardi. Filippo è impreparato al futuro, è impreparato ai ricordi che restituiscono il passato.

 

Guarda, tesoro, questo sei tu quando avevi sei anni.
E questa chi è?
Non la ricordi?
No.
È la zia, mia sorella.
No, non ricordo.
Guarda questa. Qui era Natale, il tuo terzo Natale.
Questo sarei io?
Sei tu. E guarda questa, risale al tuo primo giorno di scuola.
Basta, mamma, lasciami stare. Non voglio vederne più.

 

Vieni, mamma, convinci tu Filippo a fare una foto con me!
Tesoro, se non vuole…
Vieni sul divano! Se la fai con noi, magari si convince…
Filippo le guarda. Sono uguali. Sono belle da mozzare il fiato. E hanno gli stessi occhi, le stesse ragioni, le stesse intenzioni. Sono due quadri disegnati dallo stesso pittore, sono dettagli lasciati allo sbaraglio. Sono sfumature di un presente incerto. Sono la cornice per la sua faccia. Ora sono una alla sua destra, l’altra alla sua sinistra. Con i denti bianchi e gli occhi pronti. E sente di non voler scappare.
Va bene, facciamo questa foto.
si arrende.
Gaia si alza di scatto, con un rumoroso Si! che fa tremare i vetri. Gli sorride, sa farlo senza chiedere nulla in cambio. Sa farlo senza domandarsi se sia talento o fortuna. Sa farlo perché ancora non ha la schiena curva e gli occhi stanchi. Lei merita una foto bella. Merita una foto che non rovini il suo diario. Una foto da riguardare tra dieci anni. Filippo vuole questo soltanto. Vuole che Gaia, un giorno o l’altro, lo guardi in quell’immagine e sappia ricordare l’entusiasmo per averlo convinto. Vuole che, tra dieci anni, si ricordi di lui, di quella pagina bianca che indossa le loro facce. Un po’ ammuffite, forse anche un po’ stordite, però pronte a non sfigurare. Pronte a essere dettagli di valore. Vuole questo soltanto per Gaia. Vuole che sia orgogliosa di lui, della sua faccia e dei denti che riuscirà a mostrare.
Gli dà un bacio, Gaia. Sulla sua faccia spinosa e impreparata.
Grazie, Fili!
E lui non se l’aspettava.
Anita lo guarda. Gli sorride, sapeva che ce l’avrebbe fatta. Chi trema impara in fretta a tenersi. O a lasciarsi guardare, senza provare vergogna per le mani che non sanno star ferme. Si impara anche a masticare la vita, presto o tardi, nonostante le labbra abbiano sentito il sapore cattivo dell’abbandono. E ci si abitua a star seduti su un cratere, senza guardare il vuoto. Si impara a vivere. S’impara ad imparare, a non accontentarsi del tempo che passa, del tempo che trema come un terremoto di anni persi.

 

Dai, Gaia, va’ a sederti accanto a Filippo. Metto l’autoscatto e vi raggiungo.
Si, ma fa’ veloce!
Corri a sederti!
Corre. Filippo le fa spazio. Gli si siede accanto. Le poggia una mano sulla spalla. Anita li raggiunge.
Abbiamo dieci secondi, dai che scatta!
Si avvicina alla figlia. Filippo allunga il braccio, stringe anche lei, tocca le sue spalle magre. Sono vicini, si stringono per entrarci tutti, per avere uno spazio. Per non sentirsi più fuori posto.

 

Eri buffo oggi.
Facevo tanto ridere?
Facevi ridere me. Io ho capito chi sei, gli si siede accanto, scostandosi i capelli dal volto.
Chi sono?
Sei uno con le ossa rotte. Uno che vuole riattaccarsi i pezzi.
Forse non siamo così diversi, le accenna un sorriso.
Siamo due combattenti senza armi. Io non ho più segreti. Sto rischiando.
Io ho già rischiato. Io non so abbracciare.
Ti sei convinto di non saperlo fare.
Hai ragione tu. Non abbiamo segreti.
Lo vedi?, ora è lei ad accennargli un sorriso, Stiamo rischiando.

 

Sicuro di non volere una birra?
No, grazie.
È notte e la città si è spenta sotto un cielo bianco, di nuvole cariche di pioggia e violenza. Fabio è appena rientrato. Anche stasera a cena erano in tre. Anche stasera ognuno ha improvvisato il proprio ruolo. Gaia ha sorriso, lei è abituata all’assenza di suo padre. I bambini si abituano a tutto. I grandi sono fossili. Sono duri come sedie di legno. Non si addomesticano. Non si perdonano. Accumulano sbagli e se li rinfacciano. Tu non ci sei mai, Tu non sei più la stessa. E poi si sta zitti. A tavola si mangia pane e silenzio. Acqua e silenzio. E qualche volta si preferisce non esserci affatto. Per non inventarsi scuse, scorciatoie per sopravvivere alla rabbia, per non fare finta che Va bene così. I bambini non mentono. Non lo sanno fare. Sanno piangere, sanno rincorrersi, sanno sporcarsi la bocca mentre mangiano, senza vergognarsi. I bambini vivono quello che i grandi hanno dimenticato. Gaia ha gli occhi di chi può ingoiarsi il cielo. Suo padre ha gli occhi sventrati di chi, il cielo, l’ha dimenticato. Fabio è un superficiale. Filippo lo guarda aprirsi una birra, berla con fare sicuro, slacciarsi due bottoni della camicia. Le sue donne dormono, nella stanza accanto. E lui non chiede se la sua bimba abbia mangiato o se abbia fatto i capricci. Non chiede se sua moglie abbia ingoiato uno sputo o un altro risentimento. Non chiede se abbiano voglia di scappare da qui, da questo nido di ragnatele. Non chiede. Non gli importa o non sa farlo. O non sa guardare oltre la sua bottiglia verde. Non sa vedere oltre la sua bevanda, che scende giù per la sua gola. Lo guarda ancora, Filippo. Vorrebbe sbattergli la testa contro il tavolo, spaccargliela. Va’ di là, vai da tua moglie, da tua figlia. Vai a stringerle forte, non gli dice niente. Non è nessuno per insegnargli qualcosa. Non ha niente da insegnare. Niente da urlare. Lui sta bene così, con la sua bottiglia in bocca e il suo posto a tavola. É seduto. Filippo gli è vicino, gli è di fronte. Sono diversi, sono rette parallele, sono il cielo che cade e la terra che trema. Ha un tshirt di cotone, larga e azzurra. Fabio indossa una camicia aderente. Gli piace che si veda il suo corpo, che le donne lo vogliano. Gli piace che lo desiderino.
Ti stai vedendo con qualcuna?
Che fai? Mi fai le stesse domande di mia moglie?, sorride, Fabio, divertito.
Si alza, va verso il frigo, prende un’altra birra. L’apre veloce. Filippo cerca di sorridere, fa un verso con le labbra, per non sfigurare. É un cimitero in cui si ride, in cui si deride il finale, in cui s’arrende anche la fine.
No, figurati. Era per curiosità.
Era per dire qualcosa, avrebbe voluto dirgli. Avrebbe voluto dirgli che non gli importa se ha un’altra donna. Non gli importa affatto. Avrebbe voluto ricordargli che lui una donna ce l’ha. Una che non gli parla. Una che non sa parlare a suo marito.
Niente di serio, in questo periodo.
Ah.
E invece vorrebbe chiedergli che cosa voglia dire. Che vuol dire “niente di serio”? Esiste una amante seria? Esiste una scopata seria? Filippo sorride. Sono proprio diversi. Fabio è un pezzo di legno. Il tempo non l’ha cambiato. Il tempo non l’ha scosso. Non l’ha spezzato. Il tempo l’ha lasciato così come era. L’ha solo gonfiato un po’. Gli ha gonfiato le braccia.

 

Mamma?
Si?
Non dormi nemmeno tu?
No, non ho sonno.
Nemmeno io.
Dai, Gaia. Chiudi gli occhi, domani devi andare a scuola.
Ma ci ho provato. Non riesco.
Vieni qui, stiamo abbracciate, cosi ci addormentiamo subito.
Mamma?
Si?
Tu vuoi bene a Filippo?
Perché me lo chiedi?
Perché io gli voglio bene.
La stringe a sé, Anita. Ma lei si scosta.
Avvicinati, che proviamo a dormire.
Io non voglio vederlo triste, mamma.
Filippo non è triste. Perché dici così?
Perché non ride mai.

 

Sicuro che non vuoi una birra?
Non gli risponde, Filippo. Fa un cenno con la testa. Possibile che non abbiamo niente da dirci?, vorrebbe chiedergli. Ma non lo fa, perché non avrebbe argomenti da proporre. Non avrebbe nulla da raccontargli o da voler sentire. È un caso che si siano incontrati. È un caso che non sia ancora andato a letto. E le coincidenze sono occasioni per chi ha mani abbastanza grandi per coglierle. Per chi ha mani che tremano, sono seccature. Non c’è nemmeno una mosca a tradire il loro silenzio. Non c’è un vicino di casa rumoroso. Non c’è niente. Una bevanda fresca e un tavolo ripulito da una cena divorata in tre. Una cena per quattro. Una cena che per metà è nel sacco dell’immondizia. Questi sono i casi in cui si spera che venga un lampo e che vada via la luce. E che ci si metta a parlare di altre vite. Ma come cazzo facevano a vivere senza elettricità?, Si, me lo chiedo spesso anch’io. E magari nessuno se l’è chiesto mai. Ma diventa un pretesto per riempire il tempo. Per sopportare il mormorio dei grilli, i clacson ai semafori, il tradimento del cielo. Allora uno dice che non potrebbe vivere senza televisione, l’altro risponde che non sopporta il buio. Così il tempo passa, uno dei due guarda l’orologio. È tardi, dice. E si va a dormire, tra uno sbadiglio rumoroso e lo scricchiolio di dita indolenzite. Ma non succede niente. C’è silenzio e un’altra birra sta per finire.
Che hai fatto, oggi?
Niente. Sono andato a prendere tua figlia a scuola.
Ormai è un’abitudine. Non viziarla, sorride.
Dovrei cercarmi un lavoro.
Cosa ti piacerebbe fare?
Non lo so.

 

Da piccola volevo fare la ballerina.
Non ti ci vedo a ballare su un palcoscenico.
Ero piccola. Poi ho cambiato idea.
E cosa avresti voluto fare dopo?
Tante cose, dopo il liceo avrei voluto iscrivermi in una facoltà di Lingue. Avrei voluto viaggiare, andare lontano, conoscere il mondo.
E poi?
Poi è morta mia sorella. L’anno dopo è morto mio padre. Dopo non ho avuto più voglia di studiare. Il tempo che avrei trascorso sui libri, ho preferito passarlo a costruirmi un alibi per andare avanti.
È assurdo che la vita ci abbia fermati al punto di partenza.
Ho passato anni ad accusare la vita. Ma la vita chi è, in fondo?
Non lo so. È la vita.
La vita sono io. La vita sei tu. La vita è quei giorni che non abbiamo studiato. La vita è questi giorni che non mi sento più sola.

 

Ti stai innamorando di mia moglie?
Ti sei ubriacato con due birre?
Fabio scoppia in una risata rumorosa. Fastidiosa.
Fa’ piano che le svegli.
Vedi che ho ragione? Ti preoccupi per lei, sorride di nuovo, con la sua faccia da schiaffi.
Mi preoccupo per tua figlia.
Guarda che ti capisco, Anita è una bella donna.
Bella donna. Anita non è una bella donna, coglione. Anita è una donna che tu non conosci affatto. È una storia che non ti appartiene. È un racconto che tu non sai sentire, che non sai ascoltare nemmeno. Tu non puoi capire. Sei un superficiale, Fabio. Sei vuoto, ti porti a letto altre donne per ingannare il tempo e per rallentare gli anni. Lei ti ha scelto per scappare da quella casa, sei l’alternativa di una donna disperata, di un’assassina. Non sai niente. Ha visto morire sua sorella sotto i suoi occhi, non voleva più abitare la sua casa, non voleva più abitare quel posto, fatto di rabbia e ragione. Ma i morti sono come le infezioni, li porti dell’intestino. Lei il dolore lo porta addosso. Lo porta negli occhi. Io lo vedo, tu non sai guardarlo affatto. Suo padre, quando è morto, la odiava. La odiava perché una come lei si odia soltanto, così dice tua moglie. Ma a te non l’ha mai detto. A te non lo dirà mai. Perché tu a cena non ci sei. Io non sono innamorato di tua moglie. Io non la amo, perché non so farlo. Io sono arido. E lo è anche lei, a suo modo. Siamo uguali, siamo larve che non sbocceranno, siamo carcerati. E tu non puoi capire. Tu non capisci. E non provare a dire nulla, adesso. Sta’ zitto. Anita è quello che tu non saprai mai, vorrebbe dirglielo d’un fiato. Vorrebbe spaccargli la faccia. Si alza. Gli dà una pacca sulla spalla, come si fa tra vecchi amici.
Vado a letto, e s’allontana.

 

Capitolo 12

 

 Diario di Filippo

 

Devo arrendermi all’idea che nessuno mi farà sconti. Non si mettono in saldo i giorni. Non si perdona un uomo soltanto perché ha vissuto di meno. Sto aspettando che qualcuno mi dica che sarò risarcito di tutto. Sto aspettando che qualcuno mi restituisca ogni giorno andato perso. Ogni piatto che non ho sporcato. Ogni mattina che non ho spento la sveglia per voltarmi dall’altra parte e ricominciare a dormire. Sto aspettando il mio colpevole. O il mio salvatore. Sono un passeggero distratto. Sono un treno guasto, fermo da anni nella stessa stazione. Un treno su cui saliranno soltanto i topi, le zanzare e i nomadi. E saranno solo di passaggio. Perché non si ha fiducia in chi ha una cicatrice, potrebbe riaprirsi. Non si ha fiducia in un treno guasto. Potrebbe fermarsi e lasciare i suoi passeggeri in mezzo alla nebbia, al buio, sotto un lampione di fortuna. Non ho più chiodi per attaccarmi al muro e stare buono ad aspettare. Anita mi ha insegnato che chi aspetta è il primo a scordarsi di se stesso. E io ricordo ancora. Qui ho preso tutto quello che dovevo prendere. Sono un ladro di momenti. Forse perché voglio derubare gli istanti chi ha vissuto più di me. Forse sono un uomo cattivo. O un umano cattivo. So solo che non voglio che lei soffra. Non voglio toglierle ancora qualcosa, fosse anche un Ciao al mattino. Non voglio levarle troppe parole. Si vive di quelle. Si vive per imparare a metterle al posto giusto, a camminarci sopra, a camminarci a fianco. Siamo questo, noi. Siamo piedi scalzi che scansano vetri. Siamo discorsi conclusi con silenzi notturni. Siamo nudi, a volte. E abbiamo imparato a non avere paura. A non spaventarci.

 

Perché mi guardi?
Notavo una cosa.
Cosa?
Con me non trattieni più la pancia.
Non ci avevo fatto caso nemmeno io.
Mi ha sorriso.
-Forse ci siamo spinti troppo oltre, per ricordarmi di trattenere il fiato, le ho detto.
Siamo andati troppo oltre. Ma siamo ancora fermi qui.
E mi ha sorriso di nuovo. Ho ricambiato. Io ho saputo ricambiare.

 

Lascio questa casa. E non perché io sia un ingrato. Devo molto a queste mura. A questa piccola scrivania, che mi fa male la schiena a starci seduto. Devo molto a queste pareti rosa e alle bambole nello scatolone vicino al letto. Devo molto a questo nido di peluche e ricordi intatti. Ma devo andare. E stavolta non me ne andrò sbattendo la porta, non me ne andrò col vomito alla gola. Me ne andrò con gli occhi lucidi e la barba più corta. Sì, perché Gaia mi preferisce così. Dice sono più bello. Io le ho detto che non sono bello, Sono brutto, le ho detto, Brutto e vecchio. Ma lei insiste. Lei sa insistere. Io no. Forse prima ci riuscivo, chissà, ma adesso no. Adesso preferisco non avere l’ultima parola, ma ascoltare Anita che conclude e mi guarda con i suoi occhi giganti. Gli occhi di una donna che ha imparato a volermi bene. Gli occhi di una che io posso soltanto odiare. Ma non la odio. Non la odio affatto. Non ci riesco. Non ci riesco, anche se sa sempre tutto, anche mi legge in faccia chi sono e sorride quando dico una bugia.

 

Anita, aspetta.
Dimmi.
No, niente.
Dai, dimmi.
No, niente, davvero. Buonanotte.
Volevo chiederle se potessi stringerla ancora. Per un istante soltanto. Solo per dimostrarle che ho imparato, che non sono di legno. Che riesco a muovere le braccia. Volevo tenerla addosso a me. Volevo essere un cappotto di lana, un cappotto caldo. Volevo che non sentisse freddo. Sei bella, glielo avrei sussurrato all’orecchio. Ma sono stato zitto e sono andato a dormire. Lei è di un altro. I suoi abbracci sono di un altro. Le sue parole dovrebbero appartenere ad un altro uomo. Sono di uno che non sente, che non parla, che non vede. Sono di una bestia. Fabio è tutto quello che lei non potrebbe stringere a sé. Ma lo fa. Forse anche lui trema. Forse anche lui è da salvare. Forse è senza maschere, quand’è con lei. E io lo giudico soltanto perché sono geloso. Io sono geloso. L’ho detto. Me ne vado da qui perché è la casa di uno che non sono io. Sono l’ospite sbagliato nel posto giusto. Io non sono un uomo. Io sono un pezzo di ferro arrugginito, solo che a volte lo scordo. O fingo soltanto.

 

Che musica ascolti?
Non lo so.
Non lo sai?
Una volta mi piaceva De André. Ora non lo ascolto più. Lui è morto mentre ero in coma.
Se n’è andato senza preavviso. Sono gli addii peggiori.
Come la mia nonna.
Non t’ha aspettato?
No, ma so che avrebbe voluto.
Parli con i morti?
No, con la sua fotografia.
Le ho detto cose che, a pensarci, le guance mi si tingono di rosso. Le ho detto cose che, solo a partorirle, la mia fantasia si sente ridicola. E lei si faceva beffa di me, perché poi continuavo a girarci intorno, a cercarci un senso, a balbettare scuse, scusanti e giustificazioni. Lei sa ascoltare gli sputi della mia mente. Ascolta anche i silenzi. E quando mi chiede a cosa stia pensando, conosce già la risposta. E io ho paura che ne sappia più di me. Me ne vado per questo. Perché non voglio farci l’abitudine. Non voglio abituarmi a una che sa quanto zucchero deve mettere nel mio caffè. Una che non mi prepara il latte, una che non mi chiede più cosa farò da grande. Ho paura di sentire la sua mancanza. Me ne vado per non ammalarmi, per non sporcarmi anche le vene dei suoi occhi grandi. Di quelle parole interrotte. Delle lacrime che non piange. Se mi sporco di lei anche le pulsazioni, finisce che sentirò anche il cuore battermi nel petto. E io sto bene come sto. Con le mani che tremano e la mia voce che non sa parlare. Sto bene con le mie notti insonni. Qui è sempre stato così. E Anita è abituata a tutto, persino ai ritardi di Fabio, alle sue assenze taglienti. Io no. Io lo odio perché manca. Perché non c’è a cena, perché non ha parole per precederla, per non farla sentire un segnale stradale che tutti infrangono. Un divieto che tutti calpestano. A costo di ammazzarsi. A costo di non voltarsi più indietro. Io lo odio perché è una bottiglia vuota, buttata in mare, senza messaggi di carta che qualcuno scarterà, dall’altra parte della vita. Perché spesso mi guarda e sorride, mi chiede Tu come stai? e non gli importa.

 

Glielo dirò guardandola negli occhi, m’inginocchierò per essere piccolo come lei. E poi mi rialzerò, perché lei mi vince. Mi vince con le sue domande a cui io non so rispondere. Pur sforzandomi, pur stringendo i pugni, lei ne sa più di me. Più di noi. Più delle assenze di suo padre. Più delle parole di sua madre. Più di me e dei miei giorni storditi. Gaia mi vince. E vorrei avercela con lei. È come sua madre. Una così la detesti. Perché sa tutto quello che io non so imparare. Ma poi mi dà il bacio della buonanotte e mi dice Ci vediamo domani. E resto fermo e impassibile. Lo farò una sera di queste. Le dirò Domani non aspettarmi all’uscita da scuola e, al suo inevitabile Perché?, risponderò che ho altro da fare. Risponderò che ogni giorno, d’ora in poi, avrò qualcosa da fare. E lei riderà di me. Mi dirà Sei innamorato della mia mamma? e io scapperò. Io sono un fuggitivo, forse. Come Anita. Siamo noi i nostri colpevoli. Forse, finché non mi troverò, continuerò a scappare. A sfuggirmi. Me ne vado perché io e tua madre siamo uguali, ecco cosa potrei dirle. E magari lasciare che sia la sua mamma a rispondere al Perché? che seguirà. E a tutti quelli che verranno. Io non ho mai imparato a rispondere a me stesso, non posso farlo con lei. Lei che è un’estranea a cui voglio bene. Le volevo bene già nel momento in cui continuavo a dirmi che non ne ero capace.
Invece lo sono, solo che non basta. Non basta che una persona ti entri nel cuore per garantirle un posto. Siamo precari, tutti. Siamo in attesa di un posto fisso e rammendiamo mestieri che non ci appartengono. Improvvisiamo. Ci improvvisiamo amanti, figli, padri, bambini e adulti. Io sono laureato in scienze del silenzio. Studio chi, come me, non sa collegare domande e risposte. Chi, come me, non sa dirle Ti voglio bene, piccola. Io non ti deluderò.

 

Cosa fai, nonna?
Sto piantando delle rose, sbocceranno in primavera.
A me non piacciono le rose.
Nemmeno a me.
E perché le pianti?
Perché mi ricordano un periodo della mia vita che rischio di dimenticare.
E le rose ti aiuteranno a ricordarlo?
Si, i ricordi si vestono di oggetti. O sono gli oggetti a vestirsi di ricordi. Non lo so. So soltanto che ti diventa amico persino l’inferno, se ami chi ci vive.
Allora, quando sarò grande, pianterò anch’io delle rose, cosi non ti dimenticherò.
Potrai mai dimenticarmi?
Non ho un giardino. E forse, anche se l’avessi avuto, non l’avrei fatto. Io, Angelina, non la scordo. Non dimentico come mi guardava. Come mi faceva sentire incompleto, a volte. Se dimentichi l’amore, dimentichi te stesso, mi direbbe adesso. E io continuerei a non piantare i fiori. Al massimo posso piantare bambole. O la foto che ci siamo fatti, quel giorno. Ma non spererò che a primavera possano sbocciare farfalle. Sarebbe terra arida e sporca. Non posso sperare di ricordarmi di metterci l’acqua, ogni mattina. Mi costringerei a dimenticarlo.

 

Io non sono un debole. Ma mi piacerebbe portare con me quella fotografia. Non la staccherò dal diario di Gaia. Ne farò un doppione. Ma la vorrei con me. Vorrei guardarla, ogni sera, prima di addormentarmi. La guarderò tutte le volte che starò per dire Io nelle foto non vengo bene. Sono un bugiardo. Sono solo spaventato. Ma al flash ho resistito, con gli occhi aperti e qualche dente ben in vista. E ho saputo allungare il braccio abbastanza per starci tutti. Ci siamo amati, in quell’istante. E vorrei ricordarci sempre così, come in quel preciso momento, come in un fermo immagine. Gaia sorrideva. Anita sorrideva. Persino io sorridevo. E poi abbiamo guardato lo schermo di quella digitale, sporca di impronte. Sporca di mani tuffate nella cioccolata. Ed eravamo perfetti. Ci eravamo sforzati di essere migliori, ma non immaginavamo di uscirne illesi e perfetti. Quella foto la voglio con me per ricordarci così. Per piantarla in un vaso e sperare che vengano fuori loro, con un’altra domanda da farmi. Facciamo un’altra fotografia?, Si, ma stavolta l’autoscatto lo metto io, lasciatemi solo un angolo, che me lo faccio bastare. Noi ci bastiamo. Chissà se passeranno altri dodici anni, prima che io sia di nuovo protagonista di una foto, prima che io senta l’esigenza di avere un posto. Un posto sul divano, tra le sue braccia, nel mondo. Un mio posto nell’universo.

 

Gaia vuole fare una passeggiata. Dice che oggi, quando tornavate da scuola, ha visto gli scoiattoli. È convinta di rivederli ancora.
Magari è fortunata.
Vieni con noi?
Tu vuoi che io venga?
Lo sto chiedendo a te.
Si.
Allora ti aspettiamo.
Arrivo. Ah, Anita…
Dimmi.
Abbiamo visto di nuovo un aereo. Gaia vuole volare.
È come me. Volevo volare anche io.
Volevi o vuoi?
Che cambia?
Cambia. Cambia che, se lo vuoi ancora, il cielo non ha ancora chiuso. E non c’è traffico abbastanza.
L’ho lasciata in silenzio. Ci sono riuscito. Mi ha sorriso ed è scomparsa. Mi ha aspettato sulla porta, con la piccola che scalpitava, voleva arrampicarsi sugli alberi. Voleva aprire la braccia e chiudere gli occhi. Voleva fare quello che noi non sappiamo fare più. Vola solo chi osa farlo, volevo dirle, rubando le parole di chi ne sa più di me. Ma non sarei stato originale. E avrebbe riso di me. Quindi ho camminato accanto a lei, ho camminato sperando che chiudesse gli occhi e aprisse le braccia. Era bella, la immaginavo bella. L’ha fatto. L’ho presa in braccio per farle toccare il cielo.

 

Trent’anni, vecchio mio.
Si.
Stiamo diventando vecchi.
Fabio, tu sembri un ragazzino.
Anche tu non scherzi, è la barba che ti fotte.
Ma non la taglierò.
Quanto manca?
A cosa?
Ai trent’anni, a cosa se no…?
Due settimane.
Le ultime settimane col due vanno festeggiate. Quel tre mi sta già sul cazzo! E poi suona male… trenta… trenta… suona male!
Ha ragione, il mio amico. Le ultime cose vanno festeggiate. Sono ironico, non è così. Le ultime cose vanno mandate a fanculo. Sono le rimanenze. Sono gli scarti. Sono gli ultimi giorni di un decennio che ho dormito beato, mentre tutti si chiedevano chi sarei stato al mio risveglio. Io non festeggio. Sarò in una nuova casa, da solo. E spero che nessuno mi chiami. Spero che nessuno mi chieda Come ci si sente a trent’anni?. Li metterò in imbarazzo, risponderò Come a venti. Io a venti non c’ero. Riderò di loro, della loro domanda idiota. E della mia risposta che gli tarperà la bocca e l’umore. Riderò di chi mi regalerà un pigiama. Ho già dormito abbastanza, gli dirò. Riderò di chi non mi ha aiutato ad imparare a farlo. Riderò anche di me stesso. Sono il mio colpevole.

 

Ti piace?
Cos’è?
Il mio regalo per te.
Sabri, compio diciott’anni e tu mi regali un disegno?
Tesoro, tua sorella ha passato tutto il pomeriggio su quel foglio!, la mamma si metteva sempre in mezzo. Io scherzavo.
E questo sarei io?
Si, sei tu che guidi la nostra macchina rossa!
Ma io non ho i capelli neri!
Non ti piace?
No. Non mi piaceva affatto. Ma non gliel’ho detto. Mia sorella era piccola, piccola come Gaia. Non volevo ferirla. Ma era anche viziata. E avrebbe pianto se l’avessi strappato. Avrei dovuto farlo. Avrei dovuto strappare quel disegno, quei colori che sfondavano il pavimento. Io sono diverso da come lei mi vedeva. Non sono come mi vuoi, avrei dovuto scrivere su quel foglio. Non sono come mi volevo, potrei aggiungerci oggi. Ma chissà dov’è quel disegno. Chissà se mia sorella si ricorderà di me, dei miei trent’anni. Chissà se mi chiamerà. Magari mi dirà Ho un altro disegno per te. Questa sono io, questa è la mamma, questo è papà. Tu non ci sei. Aspetterò il suo regalo. E stavolta ci sputerò sopra. Ché le seconde occasioni non sempre capitano nella vita. Non a me, almeno. A me mai. A me sempre.

 

Adesso preparo la valigia. Ho così tante parole da metterci dentro, che forse stavolta dovrò lasciarne uno spiraglio aperto. Forse stavolta mi si staccherà un braccio. Non uscirò di casa sotto la pioggia. Non è il caso. Non voglio perdere nulla. Che poi sono timido e indietro non torno. Permesso? Scusa, ripetimi quello che mi hai già detto. No, non è il caso. Me ne vado per non tornare. Del resto, tutti i posti che ho lasciato, li ho lasciati per sempre. Il mio banco a scuola, il mio letto in ospedale, la casa di mia madre. Se una macchina mi investirà, stavolta chiederò che lo faccia per bene, che mi spacchi il cervello, che mi apra il cuore. Io in ospedale non ci torno. A casa mia non ci torno. E qui non metterò più piede. E, da buon egoista, spero che qualcosa di me resti. Una scarpa, un odore, un bicchiere sporco, una parola. Un silenzio condiviso. Voglio che ad Anita resti qualcosa di me. Potrei lasciarle una rosa, cosi magari potrà trapiantarla e sperare che ne ricrescano altre. Chissà se, a primavera, la mia nonna le ha viste crescere. Chissà se ha ricordato quel periodo che rischiava di dimenticare. Chissà se Anita vorrà pensarmi ancora. Come si pensa uno come me? Come un nomade, come un pescatore di sorrisi, come un portinaio. Uno che apre e poi esce. Uno che lascia la porta incustodita. Non glielo chiederò, però. Sono un codardo, forse. Ma la sua risposta la temo. Ti penso come si pensa uno che se n’è andato. Mi dirà così, ne sono certo. Io la conosco. Noi ci siamo raccontati le nostre fughe. E anche le grida non emesse. E, a quel punto, non saprei cosa risponderle. Non saprei che pensare. Penserò che forse mi odia perché sono andato via. O perché sono arrivato. Forse devo chiederle di venire con me Dai, scappiamo, andiamocene in montagna, dove c’è silenzio. Parliamo, parliamo ancora, scoprimi. Dimmi quello che io sto per dire, parla prima di me. Dimmi che ho fatto bene ad assecondare i miei battiti accelerati. Dimmi che il cuore batte anche a te. Dimmi che ci perdoniamo a vicenda. Per il tempo perso, dico. Dimmi che correremo su di un prato e apriremo le braccia, che chiuderemo gli occhi. Dimmi che non pianterai nessuna rosa perché non avrai bisogno di pensarmi. Che mi cercherai nel tuo letto. Che mi troverai. Che siamo uguali. Che siamo lo stesso sbaglio. Che guariremo. Che ci ammaleremo. Che siamo ancora in tempo. Dimmi che siamo ancora in tempo. Dimmelo o non dirmi nient’altro. O non parlare, ché il resto non serve. Dimmi che sai quello che sto per dire. Dimmi che sapevi già tutto questo. Che ci bastiamo. Che io non basto a me stesso. Dimmelo. Ma sono io a non averne il coraggio. Sono io a chiudermi quella porta alle spalle. Lei non dirà niente. Perché sa che posso. Lei mi sfida. Lei vuole combattermi, combatterci. Senza armi, dice. Ma io mi arrendo. Lascio questa casa per non tornarci più. E mi ringrazierà. Del resto eravamo troppo per essere in due, mi dirà. E troppo poco per restare soli, non dirò io. Io non basta a me stesso. Nessuno basta a se stesso realmente.

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Un pensiero riguardo “IO BASTO A ME STESSO – capitoli 11 – 12

  1. Have to agree with mdog – this post is great. I’m not a mom, but when the time comes, I’d far rather emulate you than the sensibly clothed (and shod), mop-wielding, ovteopr-trceive nuts who are forced down our throats as the paradigm of motherhood.

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