Capitolo 15
Diario di Filippo
Mia sorella va a letto con il mio migliore amico. Quella piccola donna, che porta il mio sangue e mio nome, va a letto con Fabio. Proprio quella bambina che voleva seguirci nelle nostre serate a conoscerci e a imitarci, a fare gli adolescenti e a scalpitare per essere uomini. E io la scansavo, le dicevo che era piccola. E ora è una che sorride ad un uomo con la fede nuziale al dito sinistro e un rimpianto dall’altra parte. Una distratta, una che non ci pensa, una superficiale. Si somigliano. Due che si sorridono in quel modo sono uguali. Si sporcano della stessa aria marcia e si convincono che il destino li ripagherà con un bacio dato a mezza bocca, sperando che nessuno se ne accorga. Sono i baci degli amanti, che si guardano intorno, che temono di essere scoperti. Che si perdonano perché è il solo modo che conoscano per sentirsi vivi. Vivi per disinteresse, per negligenza, per domande mal poste o risposte nascoste sotto sensi di colpa necessari e ingiuriosi. Ma poi si finisce per non sentirli più. Mia sorella è cresciuta così, con il suo posto a tavola, con il suo posto nella vita degli altri. È cresciuta da privilegiata. Mia sorella è figlia unica. Figlia di troppi “no” taciuti. E ora lo capisco. Ora so sbrogliare tutti i tasselli che mi mancavano, che lasciavano buchi neri, vuoti di esistenza, più che di memoria. Lei è cresciuta con una madre che non si è mai perdonata. Con una donna che ha ammazzato due figli e ha iniziato a indossare le mie camice per non dimenticare il mio profumo. O per chiedermi scusa. Una donna a metà. Una di quelle che poi ti dice Però venivo a trovarti tutti i giorni, come se servisse a qualcosa. Una che ha cambiato i suoi orari, che ha smesso di smaltarsi le unghie, che ha smesso di cotonarsi i riccioli. Una che ha perso venti chili. Mia madre si è tolta una vita, ma non la sua vita. Si è punita come si puniscono i vigliacci, togliendosi i vestiti di dosso, ma non il sangue dalle vene. È stata una madre con gli occhi scavati e le colazioni impeccabili, di latte riscaldato e biscotti alla marmellata. È una che, per non perdere, si è persa di vista. Ha evitato di fare del male a mia sorella perché ne aveva già fatto a me. E a quel fratello che non è mai nato. All’uomo che dice di aver amato. A mio padre, che ha continuato a leggere la sua gazzetta in santa pace, in una poltrona mal ridotta, nella loro camera ammuffita. Mia madre ha evitato a mia sorella tutti i giorni che io ho passato in quel letto, aggrappato ad un lenzuolo bianco. Le ha evitato la mia barba arrabbiata, che non avevo scelto di farmi crescere. Le ha evitato di seguirla, di trovarla tra le braccia di un altro. Di uno che ha saputo perdonarla. Solo i simili si perdonano. E loro lo erano di certo. Il suo amante era un debole. Un uomo a metà, uno che ad ammazzarsi manco a parlarne. Però poi è morto scavandosi il dolore, scavandosi la pancia. Scavandosi di “perché” con altri “perché”. Immagino fosse ridotto male, immagino avesse gli occhi neri come caverne e i capelli bianchi. Bianchi di vecchiaia e mancanza. Ecco come l’ha fatto fuori. E gli ha tolto un figlio. Sono dei deboli, tutti quanti. E si sono amati per questo, perché si sono riconosciuti nei loro limiti, nelle strade mai asfaltate, nei ricordi ossuti di un passato intatto. Erano così, vigliacci e opachi. Come i quaderni di Gaia, con i disegni tratteggiati e bianchi, che lei deve imparare a colorare. Non hanno mai imparato. Ecco perché non riconosco mia sorella, ecco perché non saprei stringerle le mani. Lei è cresciuta in una famiglia che è nata con la mia morte ed è morta con il mio ritorno. Non ci siamo incontrati. E hai voglia a spiegarle, le cose. Se non sopporti di morire almeno una volta, non ti tocca di rinascere. È la prima regola che la vita mi ha insegnato, la più complicata da rispettare. Quella bimba viziata è nata nel nido di uno stormo in migrazione. È nata in un armadio di scheletri. È cresciuta a gazzette, abbandonate su una poltrona, e cene riscaldate nel microonde. Io sono diventato grande a forza di osservarli e di chiedermi il perché delle nostre vite. Perché la pasta non fosse più buona e al dente, ma sfatta o dura. Perché andasse ogni giorno dalla sua amica. Perché avesse sempre mal di testa. Perché non fosse più domenica. Vorrei dirglielo. Vorrei guardarla negli occhi e dirglielo. Dirle che si merita uno come Fabio. Che così potrà accontentarsi di vedere i suoi addominali scolpiti, ma non la mollezza dei giorni scaduti. O di quelli mai vissuti. Vorrei dirle che lei non si è accorta che nostra madre aspettava un figlio, che se l’è tolto dalla pancia. Che ha visto morire l’uomo che amava. E che non ha urlato dal dolore. Non si è staccata le vene dal collo. Non si è frustata. Si è fatta piccola, si è masticata le labbra e poi ne ha sputato la vergogna nei tombini luridi di un passato fuori tempo. Ma ha continuato a stirare i suoi vestiti corti e a comprarle tacchi alti come grattacieli. Tu hai pagato la colpa di essere venuta dopo di me, vorrei dirle. Mia sorella ha visto i sorrisi cuciti a forza. Ma non vedrà mai le labbra sottili e viola di nostra madre. Vedrà solo quei I vestiti sono pronti, li ho lasciati sul tuo letto. Ma non i Tuo padre non lo amo più. Mia madre ha continuato a fingersi moglie, a fingersi madre, a fingersi sazia di una vita tradita. E nessuno se n’è accorto. Non se n’è accorto mio padre, nemmeno mia sorella. Se ci fossi stato, io avrei notato i suoi occhi lucidi. O le carezze troppo frequenti da far venire il vomito. Tu paghi il prezzo di non essere come me, glielo direi. Presuntuoso quanto basta per non farmi sopraffare dalla sua voce. Dai suoi capelli scuri. Ma finti e colorati. Per non farmi scalfire dal suo regime di belle apparenze. Io sono un mostro. Lei è bella da mozzare il fiato e le gambe. Ma è solo quello che mostra, è solo un culo sodo, un paio di tacchi in saldo. Lei non è dieci anni a dormire e poi a chiedersi cosa ci stia a fare qui. Lei non è niente di quello che io ho imparato ad essere. E non posso perdonarla. Colleziono statue di pasta di sale, che al vento si sgretolano. Ma io non la perdono. Non perdono lei. E nemmeno mia madre, che l’ha preservata da tutte le porte sbattute in faccia, da tutte le maniglie rimaste attaccate alle mani. Non perdono Fabio e nemmeno me stesso. Nemmeno gli anni che ci siamo detti amici e poi ci siamo picchiati addosso bicchieri di birra e popcorn. Io non dimentico. Io sono fatto di pasta di sale. Mi disintegro nei giorni di quiete. E anche in quelli di pioggia battente.
–Tu sei una puttana.
–Cosa ci fai qui?, mi ha chiesto, mentre scendeva da quella macchina. Mi è sembrata un’altra donna, con i suoi occhi impalliditi e i capelli lasciati andare al vento.
–Da quanto va avanti?
–Filippo, possiamo spiegarti tutto…
–Tu zitto, l’ho interrotto.
è sceso anche lui dalla sua macchina, che ha sostituito il suo motorino truccato. Quello delle corse davanti alla nostra scuola. Quello che Chi arriva per primo, è il leader della settimana.
–Sei una puttana.
–Io lo amo.
–Sei ridicola.
–Cosa ne sai tu?, ha alzato la voce, Sai solo giudicare. Guardati, guarda cosa sei diventato.
Volevo spaccarle la faccia, farle sentire il sangue alla gola. Ma mi sono fatto da parte e li ho lasciati passare. Mi sono arreso a quelle parole. Alle parole di una sconosciuta col mio sangue. Di una che si porta a letto il marito di un’altra. Di una che non doveva essere lì, che doveva essere a casa, con la colazione tra i denti e l’ansia attaccata alle pareti dello stomaco. Sì, per qualche compito in classe, per qualche verifica da copiare dal compagno di banco. Invece era una ladra di uomini e notti. Quello non era il suo posto, non lo è. Lei dovrebbe appartenere ai pomeriggi a costringersi a studiare, a scoppiare a ridere, a inventare bugie per una nota sul registro, a disegnare cuori storpi su diari colorati. Invece, già di primo mattino, ha gli occhi truccati di nero. E lo sguardo presuntuoso di chi ha già fatto i conti con la vita. Mia sorella ha la faccia di una che non sa nemmeno cosa significhi inciampare sui corsi e sui ricorsi avversi della vita. Nemmeno sull’adesivo attaccato sul vetro posteriore della macchina di Fabio, che recita “bimbo a bordo”, ormai da qualche anno. Cosa può averci a che fare una così con me. Siamo pianeti opposti. Siamo ladri di vento. Lei nemmeno s’accorge di camminare su quello che io rubo. Abbiamo armi diverse. Famiglie diverse. Volevo strangolarla, in quel momento. Volevo stringerle le mani, fino a far toccare le dita di una mano e dell’altra. Ma non riesco a toccarla. Non riesco a sporcarmi di lei, di quello zaino intatto che ha messo nel sedile posteriore. Lo zaino di una studentessa che colleziona uomini e non bei voti da esibire nelle cene di famiglia. Siamo il giorno e la notte, con interruttori fuori uso di fari abbaglianti. Siamo bocche che non si somigliano, parole che non si somigliano. Non mi manca sapere com’è realmente, come passa le sue serate, come starnutisce, come fa ridere i suoi amici. Mi basta quello che ho visto. Non è come con Anita, che stavamo zitti e ci violentavamo anche i battiti delle palpebre. Eravamo belli. Mia sorella è un venditore ambulante. È una lattina vuota, abbandonata alla stazione. È un marciapiede di cemento. È quello che si vede. E io la smetto di cercarne altri difetti per detestarla ancora. Smetto anche di accusarla di essere qualcosa che io non sono. Lei è solo quello che ha scelto di essere, senza farsi scalfire da tutti quei giorni che mia madre ha pianto in silenzio, tutti quei giorni che mio padre non l’ha richiamata per le sue minigonne di pelle. Lei è una pietra di mare, in riva all’acqua. Io sono un’onda inghiottita dall’orizzonte. Finiremo per colpirci, ma poi spariremo nelle nostre ombre. Io e mia sorella spariremo nelle nostre zone d’ombra.
–Ancora non è nata e sei già geloso di tua sorella?
–No, non è gelosia.
–E allora cos’è?
–Non fanno altro che parlare di lei.
–Chi?
–Tutti.
–Dicono che sarà bella? Che avrà i capelli ricci come la sua mamma? Che avrà il mento del papà?
–Più o meno.
–Sarebbe strano il contrario, sarebbe strano se non le dicessero, queste cose.
–Dici?
–Dico. Noi idealizziamo i figli come si fa con i giorni d’estate.
–Che vuol dire?
–Vuol dire che li immagini sempre belli. Ma poi devi prenderteli come vengono fuori.
E forse Angelina aveva capito che non avevo capito. Che io, “idealizzare”, non sapevo cosa significasse. Ma mi ha guardato come se parlasse ad un adulto e ha lasciato correre. Forse pensava che saremmo tornati sull’argomento. E che io le avrei detto È vero, i figli si idealizzano come si fa con i giorni d’estate e a volte ci si sbaglia pure, ma non ho fatto in tempo a parlargliene.
–Volevo chiederti scusa. Per l’altra mattina, dico. Per l’ora.
–Non preoccuparti. Come stai?
–Bene.
Non mi chiedi come sto io?, avrei voluto domandarle. Ma sono rimasto zitto a sentire le mosche camminarci nel cervello. A inseguire quelle parole che io o lei abbiamo taciuto. Taccio sempre molte cose, quando si tratta di Anita. Un po’ perché ci siamo educati cosi. Un po’ perché non saprei come spiegarle che vorrei che mi svegliasse tutte le mattine con la sua voce, o con i suoi respiri. Non le ho detto di mia sorella e suo marito. Tanto lo sa già. Che sia Sabrina o un’altra donna, cosa cambia? Forse solo il fatto di poter dare un volto alle assenze di Fabio, di poter andare da lei, di poterle urlare contro che deve farsi da parte. Che nei matrimoni altrui non si balla, non si fa festa, non si fa una visita saltuaria. Non di notte. Ma io, Anita, non ce la vedo in questo ruolo. Nel ruolo di una moglie piegata dal male che fa averlo perso. Forse farebbe come me, che li ho guardati e ho augurato loro di stare insieme per sempre. Perché due così meritano solo di appartenersi. Forse non avrei dovuto riattaccare su quel Magari passo a trovarvi, con la certezza che non ci andrò. Avrei dovuto dirle Fatti bella, truccati e ti porto a mangiare fuori. Avrei dovuto lasciarla senza parole, senza aspettare che mi chiedesse come sto. Lei sa bene come sta uno come me. Sto come gli alberi sulle foglie. Mi spezzo e mi riattacco tutti i giorni. Mi perdono e mi sparo un colpo alla tempia tutti i giorni. Vorrei andare da lei e dirle di guardare in faccia la realtà, ma di farlo davvero. Fabio non smetterà di tradirla, di scomodare quella casa di periferia, che ora è in una strada asfaltata. Io non smetterò di odiare questi fantasmi, che tornano a farmi visita a intervalli regolari di necessità. La verità è che dobbiamo telefonarci e darci un appuntamento. A metà strada, sarebbe perfetto. E poi incontrarci. Che le distanze fanno male, e lo sappiamo bene. Scegliere una destinazione e andare via, dove possiamo gridare tutto il male che abbiamo fecondato nello stomaco. Poi buttarlo fuori e ridere. Questo dovremmo fare, io e lei. E lasciare agli altri quello che gli appartiene. I loro letti scomposti, i sorrisi finti, i giornali sportivi, le lasagne al ragù. Non avrei dovuto riattaccare. No. È che io a fare le proposte non sono bravo. Ho bisogno di una mano, come il motore ha bisogno di olio. Devo sgranchirmi le gambe e i rottami. I pensieri e le braccia. Devo prometterle che l’andrò a trovare e mezz’ora dopo essere davanti alla sua porta. Devo imparare a rispettare le promesse. Ma forse aveva ragione la mia nonna. I vecchi le rispettano, i grandi no. Nemmeno a me piacciono, come a lei. Questi tempi di mezzo sono duri, sono pezzi di pane andati a male. Sono stralci di pane dimenticati nella credenza.
–Alcune volte avevo paura, sì.
–S’ubriacava spesso?
–Qualche volta. Per le feste.
–Perché sorridi?
–Perché poi non mi chiedeva scusa. Tuo nonno non sapeva chiedere scusa.
–Potevi andartene via.
–No, non ne ero abituata. Io sono cresciuta così, sono invecchiata così.
–Ma lui ti picchiava, nonna.
–Non potevo abbandonarlo al suo destino.
–Sei stata forte.
–Era l’unica scelta che avevo.
Ho visto Viviana qualche sera fa. La sua cicatrice sulla fronte sembrava più evidente del solito, più scura. Forse perché aveva i capelli raccolti in una coda di cavallo. Ricordo che, quando eravamo giovani, mi piacevano i suoi capelli legati, il suo viso scoperto. Allora non aveva quella giacca elegante e il viso sfiorito. Ma era più giovane e meno affaticata. Non era ancora un medico.
Non era lì per caso e questo io lo so. Sapeva bene che lavoro lì. E ha anche provato a mentirmi, a fingersi sorpresa nel vedermi dietro il bancone, a servire succhi di frutta e brioche riscaldate. Ma io so cos’ha pensato. Ha pensato di non essere stata affatto credibile. Non le ho creduto nemmeno per un solo istante. Era lì per me. Anche solo per farmi sapere che la vita va avanti. E io le ho sorriso, così, d’istinto. E ho abbassato gli occhi, perché non avevo il diritto di mostrarle quello che ho imparato a fare dopo di lei. Quello che, con lei, non ho mai fatto. Togliermi quell’espressione cupa, dico. Cercare di sforzarmi a ridisegnarmi i lineamenti, a renderli più morbidi. È stato un istante, poi ho guardato il pavimento. Il foglietto con le ordinazioni da preparare. L’orario. Ho guardato persino quei panini già confezionati e gialli. Ma ho cercato di non guardare più lei. Come stai?, Bene, tu?, Bene. Io non sapevo che dirle. Come sto? Non lo so. Sto come tanti o come pochi altri. Sto come ho imparato a stare. Spiegarle che ho fatto una fotografia, non è cosa facile. Spiegarle che ho baciato la donna di un altro, non è così semplice. Non lo è affatto. Non con lei. Lavori qui da tanto?, Da qualche tempo. E non l’ho odiata. Non ho sentito l’acqua alla gola, come in quei giorni che mi sentivo soffocare e volevo chiederle perché mi avesse aspettato. Non l’ho detestata. In quel momento, le ho voluto bene. E avrei voluto abbracciarla. Non so perché, forse per ringraziarla. O per chiederle scusa. Viviana mi ha aspettato per tutta la vita. Per dieci anni, per tutto il tempo che avrebbe potuto correre e cantare, sciogliersi i nodi ai capelli, gridare al mondo che non aveva senso stare seduta al mio fianco. Le mani mi si sono gelate, quando ho pensato di stringerla. Quando ho pensato di dirle qualcosa che non fosse Ecco il tuo succo al pompelmo. No, io non sono fatto per queste cose. Forse sono come mio nonno, non chiedo scusa. Non ne sono capace, mi si inceppa la lingua, come i nastri delle musicassette. E divento ridicolo e imbalsamato. Mi attorciglio e mi scombino i capelli. Sudo e resto asciutto. Io non posso spiegarle cosa ho provato. Cosa ho sentito, quando lei mi ha preparato quel pesce al forno. E volevo sbatterglielo in faccia, buttarlo per terra, camminarci sopra. Non potrebbe capire che a volte ci si sente squali in acquari senza ossigeno. E io so cosa pensa lei, adesso. Pensa che io sia impazzito. Pensa che io sia solo più arrabbiato e vendicativo, verso la vita, verso quello che mi è stato tolto. Io non sono arrabbiato. E forse non lo sono mai stato. Io non sapevo accettare che si cresce comunque, anche senza accorgersene. Semplicemente non ne ero abituato. Non era così per me. Io notavo tutto, ogni cosa. Ogni pelo in più sul mio corpo, ogni minuto che somigliava ad un altro. Notavo l’infelicità di mia madre. Gli occhi bui della nonna, che poi sorrideva per non mostrarsi infelice. Io m’accorgevo di ogni cosa. E dormire per così tanto tempo, senza potermi veder cambiare, io non sono mai riuscito ad accettarlo. E sapevo che non sarei stato più quello di una vita fa. E nemmeno quello della vita che verrà. E stare nel limbo, volevo dirglielo, non è facile. Mi avviliva. Sorrido perché penso a lei. Anita è nel limbo con me. E vorrei che ne uscissimo insieme, un giorno che saremo preparati agli inconvenienti della vita. Un giorno che impareremo che non si è mai pronti agli inconvenienti della vita.
Volevo dirlo a Viviana, qualche sera fa, Tu non sei sbagliata. Ma tu non mi capisci. Tu ti sei scelta. Ti sei costruita. Io mi sono dovuto accettare. Viviana, accettarsi è brutto. Perché il verbo accettare prevede un evitabile “ma”. Mi accetto ma vorrei essere diverso. Ma potrei cercare di meglio. Ma magari torno a dormire. Ma, chissà, forse. O forse no. Io volevo crescere, non accettarmi. Magari ci saranno altre occasioni per dirglielo. E per cercare di farmi capire. Per spiegarle perché non ci sposeremo, perché non faremo figli, perché non sarò mai più il diciottenne che l’aspettava ai bordi della vita, come se fosse il confine impreciso del nostro destino.
–Vorrei parlarti.
–Dimmi.
–No, non qui.
–Sto per finire il mio turno. Dammi solo dieci minuti.
–Va bene. Ma non guardarmi così, non ho intenzione di chiederti di tornare insieme.
–Finisco e ti raggiungo.
–Ti aspetto. Ah, Filippo…
–Dimmi.
–Sorridi, che ti riesce bene.
Sono stati eterni, quei dieci minuti. Mi hanno sempre messo ansia le premesse di un rimprovero o di un abbraccio. Dimmelo subito, dimmi quello che devi, non farmi aspettare, avrei voluto dirle. Ma mi sono trattenuto. Per non mostrarmi con le sopracciglia inarcate e gli occhi scuri. E ho percepito un fastidio indecente. Lei mi ha aspettato per dieci anni e io non sapevo aspettare dieci minuti. Ho finito il mio turno e sono andato da lei. Come un cavaliere coraggioso. Non sapevo cosa potesse dirmi, ma mi tremava lo stomaco. Un po’ come quando, da piccolo, mia madre mi diceva A casa ci facciamo i conti. E io, a casa, non volevo tornarci. M’intrattenevo, parlavo d’altro, speravo che se ne dimenticasse. Ma lei non scordava nulla. E poi, una volta tornati, mi guardava con i suoi occhi arrabbiati. È vero che certe cose non si dimenticano. Io non la dimentico. E provo quello stesso formicolio alla pancia, ancora oggi.
–Parto.
–Parti?
–Si, vado via da qui.
–E dove vai?
–In Africa.
–In Africa?
–Si. Collaboro con un’associazione per la costruzione di due ospedali in una zona disagiata.
–Vai a salvare altre vite.
–Ci provo. É la scelta della mia vita salvare la gente.
–Sei coraggiosa.
–No.
–Ti dico di sì.
–Salvo solo chi non può concedersi il lusso di farlo da solo. Non è coraggio.
Ognuno al mondo ha qualcuno che lo salva. Qualcuno che gli insegna qualcosa, a camminare, a sorridere, ad allacciarsi le scarpe, a non guardarsi indietro mai. Io e te non eravamo fatti per salvarci. Eravamo fatti per fare un pezzo di strada insieme. La tua condanna è questa, non chiedere in anticipo se avrai qualcosa in cambio. Non l’hai chiesto a me, non lo chiederai ai tuoi pazienti. Li salverai, o almeno ci proverai, senza sapere se ci saranno o se non ci saranno mai più. Non dirmi che non sei coraggiosa, non ci credo. Sei l’unica ad avere coraggio, forse. Trova qualcuno che ti salvi, Viviana. Trovalo e fammelo sapere, ti chiedo solo questo. Ti chiedo di dirmi che in Africa, in una foresta, in un deserto o ai confini del mondo, hai trovato qualcuno che ti ha portato con sé fino alla fine. Qualcuno che ha scelto di farsi salvare da te. Non gliel’ho detto. Non ce l’ho fatta. Mi sono fatto precedere, per una volta.
–Prima di partire, passerò a salutarti, se vuoi.
–Io sono qui, le ho detto. E ho cercato di abbracciarla. Ma mi ha preceduto di nuovo.
Capitolo 16
–Io lo amo.
–È un uomo sposato.
–Il suo è un matrimonio infelice.
–Tu sei una ragazzina. Sei viziata.
Osserva le sue mani fredde, che stringe e strofina da un po’. Sabrina è seduta quasi scomoda su una sedia di legno, nella sua cucina bianca. E Filippo si chiede cosa voglia da lui, perché sia qui con la sua indecente faccia da martire. Vuoi che non dica niente alla mamma? Vuoi che non le dica chi ti porti a letto? Vuoi che non ne parli con Anita? Puoi stare tranquilla, di te non m’importa. Ma vattene, vattene da casa mia. Vattene al diavolo, vorrebbe gridarglielo, trascinandola fuori per quei capelli colorati e finti. I capelli di una bambina bionda e rumorosa. Resta a guardarla, poggiandosi ai fornelli della cucina, che ha scoperto funzionare bene.
–Ma tu non puoi capirmi. Ho sbagliato a venire qui. Tu non sai provare sentimenti.
–Ma cosa ne sai tu di me?, alza la voce e impallidisce.
Si scosta un po’ da quei fornelli ancora sporchi di caffè umido.
–Tu non sai niente di me!
glielo ribadisce, con gli occhi fuori dalle palpebre.
Sabrina si alza di scatto, s’allontana da lui come da una bestia affamata.
–Non gridare.
–Grido quanto mi pare. Tu non mi conosci. Per me sei un’estranea, e in realtà ha già smesso di alzare la voce. Ha le mani poggiate su quel tavolo minuscolo, le braccia dritte come due tronchi d’albero appassito. Osserva la giacca di Sabrina, nera e leggera, una giacca da primi giorni di primavera. E la sua maglia colorata, con quel seno che prima non c’era. Che sembrava non dovesse crescere mai. È una donna con una borsa pesante, che conserva uno specchietto, le sue sigarette, tolte a un distributore notturno, qualche euro e i suoi trucchi. È una donna con la borsa piena di quello che è diventata, di quello che è stata in sua assenza. Vuole solo che se ne vada via presto, che tolga il disturbo. È furba, lo diceva sempre Angelina, quando Sabrina era soltanto una bimba. Sa attaccarsi alla frase giusta, a quel Tu non sai provare sentimenti che ogni volta lo stordisce, come un pugno in pieno viso. Come adesso, che ha urlato e osserva le sue mani, le sue cosce, la sua borsa, che ha lasciato cadere per terra, quando è arrivata. La guarda e si chiede perché gli dica sempre quella frase. Forse non è una donna distratta, forse non è una superficiale, è una che ha capito che Filippo non sa amare. O che non sapeva amare. Forse l’ha sentito dire. O l’ha immaginato. Forse è solo brava a martoriarlo nel suo punto debole, è solo giovane e immortale, come chiunque, della vita, abbia ascoltato l’eco, ma non il disappunto.
–Puoi anche andartene adesso.
–A me dispiace che siamo due estranei.
Alza lo sguardo, Filippo, su questa frase inaspettata e stonata. Lei ha camminato un po’. È davanti alla porta, ha degli occhi che non s’aspettava.
–Lo siamo sempre stati.
–Hai ragione. Lo siamo sempre stati.
–Mi faceva sempre i dispetti, tagliava i capelli alle mie bambole.
–Tuo fratello tornerà.
–Io ho paura, nonna.
–Non devi averne. Io so che tornerà.
–Non ricordo più la sua voce.
–Non piangere, Sabrina.
–Domani è un altro compleanno senza di lui.
–Guardami. Sorridi. Domani preparerò una torta e poi gliela porteremo insieme.
–Ma lui non potrà mangiarla.
–Ma sarà felice lo stesso. Una torta al cioccolato.
–È la sua preferita.
–Sì. Gliela porteremo insieme. E gli dirò “Vedi? Per te ho imparato a fare anche questo, non si è mai troppo vecchi per imparare a fare una torta”.
Filippo non saprà mai che, quel giorno, sono andati da lui. Che gli hanno portato il suo dolce preferito. Era una primavera fredda, che non avevano ancora fatto il cambio di stagione. E lui compiva ventitré anni. Non ne ha sentito l’odore. Non si è sporcato il naso di marrone. Non hanno riso tutti insieme alla sua faccia imbrattata. Ma l’hanno poggiata accanto al suo letto e hanno sperato che se ne accorgesse. È stata l’ultima volta che è andata a trovarlo, poi Angelina è morta. Ma è stata fiera di sé, ha sorriso nel dirglielo, nel dirgli che aveva imparato. E Sabrina era piccola, non era ancora distratta. Ricordava quale fosse il suo dolce preferito. Ricordava che fosse il suo compleanno. Ricordava a stento la sua voce e voleva sentirla ancora una volta. Voleva che le chiedesse scusa per quelle bambole calve e mozzate.
–Come vedi, sto lavorando.
–Filippo, dobbiamo parlare.
–Ti ha mandato mia sorella?
–Ti aspetto fuori. Appena finisci il turno, raggiungimi.
Ma non ha alcuna voglia di andare da lui, di sentirsi dire che è fatto così, che si sente in prestito nel posto sbagliato, che non ha fatto pace con le scelte che la vita gli ha imposto. Non ne ha alcuna voglia. Lavorerebbe anche tutta la notte, pur di non parlargli. Sa come andrà a finire. Si sentirà dire che Anita non lo fa felice, che non le va più di fare l’amore. Che sembra una morta. Lo è, coglione. Ma tu non lo puoi capire, tu capisci solo i vivi. Tu capisci solo quelli che ti somigliano. Tua moglie è venuta da te per sfuggire al suo passato, per scappare dai suoi mostri. Ma non te lo dirà, perché tu non sai ascoltare la sua rabbia, non sai addomesticare la sua frustrazione, non sai difenderla dalla tua, ma tutto questo Fabio non potrebbe capirlo. Gli domanderebbe di nuovo Ti stai innamorando di mia moglie?, con quel sorriso snervante a bocca larga. E quindi decide di abbassare lo sguardo e aspettare che esca. Magari finirà il suo turno e scapperà dalla porta posteriore, per non incontrarlo. Per non doverlo guardare negli occhi. Per non dirgli Sì, amo tua moglie. Amo i suoi caffè scadenti. E finirà per fuggire ancora, per sfuggire a un amico che vuole soltanto giustificare le sue scopate, ma che di sentimenti non parla. Fabio non sa amare, forse soltanto perché è stato costretto a farlo fin da giovane. All’amore bisogna arrivare preparati, come a qualsiasi altro inconveniente della vita. Perché poi la vita ti costringe ad amare una figlia che cresce nello stomaco di una sconosciuta, che ti ha voluto per una notte appena. O forse per due notti soltanto. La vita ti costringe ad amare una donna che ti stringe le mani e ti dice che sarete in tre, Che un figlio non è un gioco, non è un giorno. Si finisce per amare per forza. Come i bambini costretti ad andare a scuola. E vomitano ansia e rabbia, ma devono andarci. È così anche la vita dei grandi, di quelli cresciuti a palestra e figli inaspettati. Quelli cresciuti a scarpe da riparare e sogni più o meno sprecati a parole. Ma lasciati in cassetti di calze bucate e pranzi rimandati. E si finisce per riempirsi le serate di altre donne, di cene scondite e notti di fuochi spenti a forza. Quando poi l’amante deve andare a scuola. Quando deve tornare ai suoi diari d’adolescenza. Ai suoi banchi fatti di scarabocchi e frasi d’amore. Frasi da diabete. Da riguardare, anni dopo, e riderci su. E piangersi su, perché quell’amore è un capriccio di ragazzi. Ma non si è più capaci a darlo, a dirlo, a pensarlo. A consumarsi. L’amore dei grandi smette di consumarli e inizia ad attaccarli al muro, alle pentole bruciate, alle bollette da pagare, al canone tv, ai surgelati, ai bimbi che piangono di notte. Inizia ad attaccarli alle pareti di casa. Fabio è attaccato ad un muro rosa. E forse Gaia continuerà a crescere senza quel Brava, che le colora la faccia e le guance. Crescerà arida. Come la sua mamma, come il suo papà. Come il suo Filippo. Crescerà a piatti sconditi e respiri alterni. E rimpianti, per aver smesso di chiedere il perché di ogni cosa.
–Perché mi guardi così?
–Sono incinta.
–Aspetti un bambino?
–Aspettiamo un figlio.
E quel giorno avrebbe voluto abbandonarla in una discarica, in un bosco, in mezzo alla gente, davanti alla porta di una chiesa, in un ripostiglio. Ma un figlio no. Un figlio non era pronto ad averlo. Non era pronto a cullarlo, a svegliarsi la notte, a cantargli una ninna nanna per farlo calmare. Fabio non sa cantare.
–Vorrei chiamarla Gaia.
–Perché Gaia?
–Perché mia figlia dovrà essere felice.
–Dimmi quello che mi devi dire e lasciami in pace.
–Io non voglio perdere la tua amicizia per questa storia.
Filippo sorride. Si tocca i capelli arruffati e sorride. E pensa a quando le amicizie finiscono, a quando giungono al capolinea. Perché ci giungano. Non mi serve che ti scopi mia sorella per considerarti un estraneo, vorrebbe dirgli. Ma spiegargli, poi, che si cresce e si diventa solo più intolleranti, non è cosa facile. Intolleranti a tutto, anche al telegiornale, alle notizie in prima pagina, al venditore ambulante, alle strade bagnate al mattino. Vorrebbe dirgli che sono destinati a non riconoscersi più. A sentirsi solo più scuri e più sciupati. Nei pensieri, s’intende. Filippo non ha voglia di cercarlo a metà strada, là dove s’incontrano quelli che hanno ancora qualcosa da dirsi. Quelli che poi si guardano e si danno una pacca sulla spalla, s’insultano e si raggomitolano. Sono estranei nascosti nei vestiti di sempre, nelle camice aderenti, nei pantaloni un po’ larghi e sgualciti. Ognuno con le proprie convinzioni, con le proprie certezze. Io non sono fedele perché non sono fatto per questa vita, Io in una macchina non ci salirò mai più, mi viene il sangue al cervello, mi tremano i polsi e i denti. Filippo si chiede come sarebbe stato, se non fosse stato in coma per tanti anni. Magari non si sarebbe accorto che due così non hanno niente a che fare. Magari tutto succede per scoprire il senso delle cose. E ora sta cercando il senso di questo quasi trentenne che gli sta davanti, che ha i capelli scuri e la giacca slacciata. E sembra implorare il suo perdono con lo sguardo. Sembra uno sguardo massacrato. Ma non si chiede perdono solo perché non ci si riconosce più, al massimo si accetta di lasciarsi dividere dal tempo, dalle birre intoccate, dai film fuori moda, da sogni d’altri tempi, nascosti in scatole marroni. In un ripostiglio o in soffitta. Il senso è tutto qui, non cercare un senso a tutti i costi. Prendere strade diverse, guardarsi sfrecciare via. Uno su una macchina, l’altro sulle proprie scarpe bianche. E non chiedersi Perché?, ma Perché non prima?. Perché non una vita fa. Quando le birre finivano e Vai a prenderne altre due, sono al solito posto.
–Cos’hai da ridere?
–Rido perché stai diventando un coglione!
–Ne hai ancora per molto?
–Ti ricordo che stai scrivendo su un muro che la ami, potrebbero denunciarti.
–Zitto e controlla che non arrivi nessuno.
–Chi vuoi che arrivi a quest’ora…?
–Ma tu fa’ attenzione!
–Ne vuoi un sorso?
–No, grazie.
–Se vi lasciate e te ne penti?
–Fabio, ne hai ancora per molto?
–Ma sto scherzando!
–Guarda che non arrivi nessuno, ti ho detto!
Viviana, ti amo da morire, ti amerò per sempre. Che, poi, quando si è giovani, non si fa attenzione alle parole. Si enfatizza ogni concetto, ogni bacio come se fosse l’ultimo, ogni scritta sui muri come se fosse un catenaccio allacciato ai cuori. La pioggia scolorisce anche le scritte più belle. Raffredda anche i destini più caldi, anche quelli caldi da morire.
–Filippo, io alla nostra amicizia ci tengo.
–L’hai già detto.
–Ricordi quando rubavamo tutte quelle caramelle a forma di animali e andavamo a mangiarle sotto il balcone di casa mia?
–Non fare il nostalgico, che non ti si addice.
–Mi manca quando ci massacravamo di film fino a notte fonda.
Gli sorride come un bimbo che ha fatto tutti i compiti, che vuole che gli venga riconosciuta almeno la buona volontà. E gli si sgonfiano i muscoli del petto, come le pretese. Fabio sorride quasi intimidito. E sa che una risposta non l’avrà. Eppure era divertente quando si riempivano le tasche e i sorrisi di quelle caramelle giganti. Da piccoli, tutto sembra più grande, i pantaloni di papà, i coltelli, la carne fritta in padella, la scarpiera di legno. E più si cresce, più piccole diventano le sedie, che per salirci si impiegava più tempo che a starci seduti. Quelle caramelle, forse, non erano affatto giganti. Ma coloravano quei pomeriggi a correre scalzi, a riempirsi i piedi di rimproveri di mamme ansiose. Le sgranocchiavano come cani che mordono un osso. Le mangiavano anche se lo stomaco ne era pieno. Era bello distrarre Nicola, coi suoi cento chili e gli occhiali spessi come fondi di bottiglia. Era bello fuggire da lui e sentire il suo affanno, mentre li inseguiva. Poi contarle, Io ne ho rubate di più, Sì, ma io l’ho distratto. E tornarci il giorno dopo, ridere di lui, che non s’accorgeva mai che quegli animaletti gialli sparivano. Nicola è morto qualche anno fa. E il suo Supermarket è diventato lo studio di un dietologo.
–E a tua figlia non ci pensi? A tua moglie non ci pensi?
–Lei sa come sono fatto.
–Vattene a fanculo, Fabio.
–Me ne vado. Va bene, me ne vado.
E sale sulla sua Opel Astra di fretta. Il motore grida, le marce graffiano un po’. Corre via come inseguito da cani randagi. Da cani affamati. Non lo insegue nessuno. O forse soltanto gli occhi di uno che lo guarda come a dirgli Tieniti pure i tuoi ricordi, le tue caramelle, i tuoi film, le birre, i capelli spettinati. Lo guarda sfrecciare via e quel fumo che sale l’infastidisce. Si tocca il naso come a sviare quella puzza di motore riscaldato. Inizia a camminare. Torna a casa, nella sua casa di cartoline bianche attaccate al frigo, di lettere senza destinatario, di calendari rimasti a due mesi fa, di caffettiere ancora sporche del caffè della mattina. Torna per collezionare un altro caduto. Un altro grande assente. E quando Anita gli chiederà perché ha tagliato i ponti con suo marito, le dirà che erano troppo diversi. Te ne accorgi solo ora?, gli chiederà lei, E tu quando te ne accorgerai?, non le domanderà lui.
–Quel tuo amico è simpatico.
–Chi, Fabio?
–Sì, lui.
–Mi ha detto lo stesso di te.
–Digli che sono troppo vecchia per innamorarmi di nuovo.
–Che scema… cosa si mangia per cena?
–Siete tanto diversi, però.
–Chi, io e Fabio?
–Sì, voi due.
–E da cosa l’hai capito?
–Da come muoveva le labbra, le mani. Mi piace la gente che gesticola.
–C’è odore di zucchine.
–Invecchierete insieme. Lo sento. Ascolta la tua nonna, alla mia età riderete di me che te l’avevo detto.
–Filippo…
–Non mi aspettavo di sentirti.
–Lo stanno operando. Dicono sia grave.
–Anita, che vuol dire?
–Stasera era puntuale. Stasera sarebbe arrivato puntuale per cena.