IO BASTO A ME STESSO – capitoli 7 – 8

definitiva1

 

 

Capitolo 7

 

Condoglianze.
Grazie.
Ti sono vicino. Mi dispiace.
Grazie.
Non prova niente. Suo padre è appena stato messo sotto terra. E lui è fermo a guardare. Guarda e resta zitto. A voi forse dispiace, ma a me no. È colpa di mio padre se sono stato in coma per dieci anni. In quella macchina doveva esserci lui. Io non lo perdono, ma resta zitto e abbassa gli occhi. È un cieco al centro della strada. È una maniglia senza porta. Si porta una mano ai capelli e respira forte. Questo non è il suo posto. Cecilia lo guarda, sono distanti, accanto a lei c’è Sabrina. Non ha gli occhi neri, oggi. Ha i capelli raccolti, le unghie bianche, le labbra pulite. Cecilia stringe la mano a due persone, sua figlia le poggia un braccio sulla spalla. Sono donne sole. Sono donne abbandonate. Improvvisamente sembrano piccole e senza contorni. Filippo guarda la madre e la sua maglia nera, fa un ghigno. Sua madre l’ha tradito, quell’uomo sottoterra. Che senso ha vestirsi di nero. Vai a festeggiare col tuo amante, vorrebbe urlarle. Tace e si scosta ancora un po’. In un angolo, da solo. Fabio e Anita si avvicinano.
Hai bisogno di qualcosa?
Solo di smetterla con questa messa in scena.
E poi il silenzio. La mano di Fabio sulla spalla dell’amico e uno sguardo di complicità. Ha bisogno soltanto che qualcuno possa raccogliere un umore che nessun altro potrebbe capire. Non prova pietà per il suo papà. Vorrebbe fare a pezzi la sua bara, distruggergliela. Togliergli la sua casa. Dirgli Un uomo come te non doveva fare figli e poi metterci la terra sopra, ricoprirlo di terra e vermi. Fargli ingoiare tutto e ridere di lui. Ridere di un padre che stava zitto. Un padre che leggeva la Gazzetta. Un padre che ha comprato il latte al suo posto, per dieci anni. Un padre che lasciava che sua moglie andasse con un altro, senza accorgersene. Senza farle del male. Senza vergognarsi. Gli tremano le mani. Guarda sua madre e gli tremano le mani. Forse, ora che la fossa non è ancora ricoperta del tutto, potrebbe spingerla giù. Doveva succedere anni fa e vederla marcire tra i fiori ormai secchi. Gli tremano le mani e sa che, se volesse, non avrebbe voce. Ha la bocca asciutta. La gola asciutta. Le pupille impazzite. Di vetro e ghiaccio. Questo non è il suo posto.
Io me ne vado, lo dice a fatica. Poi si schiarisce la voce.
Vengo con te.
Vado a piedi.
Vengo con te. Amore, vado con lui, ci vediamo dopo a casa.
Anita annuisce e tocca il braccio di Filippo, come a dirgli Sono qui, se vuoi. Lui abbassa lo sguardo. Non me ne faccio niente della tua pietà. Ti ho vista due o tre volte, non sai niente di me. Della tua pietà non me ne faccio un cazzo, le vorrebbe dire. Ma se ne va. Fabio lo segue.

 

Il sole batte forte. Sulle loro facce, sui loro silenzi, sulle parole trattenute sul pendio delle labbra. Un padre sottoterra e un figlio che cerca di non toccare le linee che separano la pavimentazione del marciapiede. Fabio non è mai stato bravo a parlare. E Filippo non ha voglia di sentirsi dire nulla. Questi momenti non sono cambiati e la storia della loro vita li riconosce ancora. Si ripetono sempre uguali. Uno sta zitto, l’altro cammina e barcolla.
Io non soffro.
Quell’uomo resta tuo padre.
Oggi è Febbraio e fa caldo.

 

Cosa ci fai al buio?
Cecilia ha acceso la luce, rientrando in casa. Sabrina è a pochi passi da lei. I loro volti sono scuri, segnati da un giorno di strette di mano e saluti, di ultimi addii e promesse. Di preghiere a Dio perché gli dia il posto che merita. Era una brava persona, è così che si dice. E qualcuno a volte ci crede. O fa finta. Qualcuno ha pregato davvero per lui. Qualcuno ha pianto. Sabrina ha pianto, ha stretto le mani l’una con l’altra, ha baciato la sua bara di legno. Filippo è seduto sulla poltrona che ogni sera occupava Ugo, quella vicino al quadro che non c’è mai stato. E guarda la madre, in silenzio, con gli occhi di vetro e i capelli arruffati.
Ti aspettavo.
Sabrina si fa strada, cammina svelta, scioglie i capelli finora raccolti.
Vado a fare una doccia, dice, con gli occhi bassi.
No, resta, è Filippo.
Sabrina si ferma istintivamente al suono della sua voce. Rimane sospesa tra un gradino e l’altro. Torna a quello inferiore, mentre lascia andare i capelli.
Devi dirmi qualcosa?
e lo guarda negli occhi.
Cecilia accende un’altra luce, strizza gli occhi, ancora appiccicati da lacrime e preghiere.
Tesoro, stai bene?
Sto bene.
Sei pallido.
Ho ricordato tutto, mamma. Io so tutto.

 

Io vostro padre l’ho amato. Ma tra noi le cose non andavano più bene.
sposta una lacrima che le accerchia la faccia. È seduta sul divano, in un angolo, piccola e indifesa. Sembra una bimba messa in castigo dai genitori. Un insetto. Filippo fa su e giù per la stanza, ha le orecchie rosse e gli occhi lucidi. Ha le mani che tremano.
Per questo lo tradivi?
Non stavamo più bene. Non parlavamo più.
Un sorriso sarcastico di Filippo. Sabrina è seduta al primo gradino della scalinata. Le mani intorno alle ginocchia. In silenzio. Gli occhi pieni. Ma zitta. Non ha detto una parola.
Perché non vai da lui, adesso? Perché non vai a festeggiare? Sei libera, ora.
Sei ingiusto, Filippo.
Io ingiusto?
Io vostro padre l’ho amato davvero. L’ho amato tanto.
E si copre il volto. È un lamento il suo, discontinuo e fastidioso. Filippo si ferma, la guarda. E la odia. Tutto è tornato a quel giorno. Erano così, erano nemici, si odiavano. Le loro frasi taglienti consumavano un campo di battaglia. Lui era solo più giovane e meno disilluso. Sperava che sua madre gli dicesse Hai visto male, e forse le avrebbe creduto. Forse non sarebbe scappato via. Forse non si sarebbe messo al volante. Lei non l’avrebbe seguito. Lei non l’avrebbe visto farsi a pezzi, mentre si accartocciava. Bastava dirsi una bugia, non vedere quei due corpi farsi uno solo. Bastava non odiarla così tanto. Oggi è come allora. La vita è strana. Sono passati undici anni e tutto è tornato a quel giorno. Lo stomaco che si fa grovigli. La gola asciutta. Gli occhi bagnati. E il petto impazzito. Lei piangeva come ora. Piangeva e supplicava perdono, supplicava una possibilità. Solo Sabrina è di troppo. Lei non c’era quel giorno. E ora è lo stesso. Sembra non ci sia, sembra di pietra, sembra un ramo abbandonato dal vento ai bordi della strada. Ha gli occhi pieni di qualcosa, le braccia strette per non lasciarsi scappare. Bastava non dicesse Sì, ho tradito tuo padre, e forse lui l’avrebbe strattonata. Ma non sarebbe andato incontro a quel vetro, incontro a quel sangue. Incontro al suo sonno.

 

Non è colpa tua, Cecilia, smettila.
Leone, basta.
Guardami negli occhi.
Lasciami stare.
No, devi guardarmi. Ecco. Io ti amo e tu non sei colpevole di niente.
Mio figlio è in coma ed è colpa mia.
Non è colpa tua. È stato un incidente.
Tu non l’hai visto quel giorno. Non hai visto i suoi occhi. Non hai visto il suo odio.
Un figlio non può odiare la sua mamma.
Tu non conosci Filippo.
Ma conosco te. Cecilia, tu non sei colpevole.
Il nostro amore è una colpa.
Non dirlo. Questo non devi dirlo mai.
È la verità. Il nostro amore è sbagliato.
Tu non lo credi davvero. Il bambino che aspettiamo non è sbagliato.

 

Al mio posto dovevi esserci tu, quel giorno.
l’ha detto. Fermo, immobile. La fissa, ma lei non riesce ad alzare lo sguardo. Allontana le mani dalla sua faccia e lascia che le ginocchia si sporchino di quello che non trattiene più.
Hai ragione, sussurra.
Troppo facile adesso.
Non mi sono mai perdonata nulla. Non mi sono perdonata nemmeno un istante di quel giorno.
e alza lo sguardo verso suo figlio.
Sabrina li fissa. Ancora ferma nella sua posizione. Ancora incredula e trasparente. Un padre che muore, una madre che sembra un’altra. Un fratello che parla. Sembrava muto e inconsistente. Sembrava un quadro, un oggetto leggero, un attaccapanni. Ora è un uomo con la barba e i capelli arruffati, non il ragazzino delle fotografie di una vita fa. Quello di un’altra vita. Una lacrima cade, imprevista, e segna una linea lungo il viso pulito. Lei non piange. Non è debole. Ha colorato i suoi capelli, si è messa addosso la maschera della sua storia. Solo che adesso non trattiene gli occhi gonfi. Solo che ora non trattiene le braccia che cadono e lasciano andare le ginocchia. Questa non è la sua famiglia. Questa è un’altra vita. Un altro salotto. Ho paura, vorrebbe dire. Ma non ha voce. Forse lei e Filippo non sono così diversi. Sono solo lontani. Sono solo inconciliabili. Sono tempi distanti, tempi che non si sono incontrati.

 

Dimmi che non è vero.
Era la cosa giusta da fare. La sola cosa da fare.
Tu non dovevi scegliere anche per me.
L’avrei odiato.
Non avresti mai potuto odiare nostro figlio.
Leone, noi siamo uno sbaglio. Nostro figlio era uno sbaglio.
Non lo credi davvero. Lo dici, ma non ci credi.
Ci credo, invece.
Tu non dovevi scegliere anche per me!
Non gridare, ti prego.
Perché hai abortito?
Perché io appartengo ad un altro uomo, ad un’altra vita. Io e te siamo uno sbaglio.
Non dirlo più. Non dire più quella parola.
Posso anche non dirla, ma sappiamo entrambi la verità.
Riuscirai a dormire la notte?
Con mio figlio in coma? No.
E non ti senti in colpa verso il nostro, di figlio?
L’ho salvato da me. L’ho salvato da noi.
E a me chi mi salva?
Dovrai farlo da solo. Dovrai farcela.

 

Puoi anche smetterla di piangere. Sei ridicola.
Filippo, ti prego, perdonami. Io volevo proteggerti.
Fa per alzarsi, si avvicina al figlio. Lo guarda da pochi centimetri di distanza. È cambiato. È diverso. É un uomo a metà. Il respiro si affanna. Non ricordava quanto fossero belli gli occhi del suo bambino, chiari e trasparenti. Ora sono diversi. Ora sono morti. Ma erano belli, allora. S’ingoiavano gli alberi, la strada, le nuvole, le panchine assolate, i destini interrotti. Aveva il mondo tra le mani, suo figlio. Ora sembra stanco, ora sembra ingessato. Sembra un paralitico. Si sente in colpa, è stata lei a ridurlo così. Lei e i suoi silenzi. L’ha ammazzato. E, ora che gli è vicino, non lo riconosce. Filippo correva per la casa, saliva gli scalini a due a due. Mangiava di corsa, prendeva lo zaino e scappava via. Ti voglio bene, mamma, urlava, quando aveva quel sorriso pieno, i denti fuori dalla bocca e le guance chiare e luminose. Era bello. Prometteva giorni di fiori, giorni di primavera sul davanzale della vita. Ora è un cadavere che si muove, con le orecchie rosse e la barba incolta. Non troppo lunga e nemmeno troppo corta. È indefinita. Lui è indefinito. Lui è quello che lei ha permesso. Cerca di accarezzargli il volto, cerca di ricordarsi di lui.
Non toccarmi, l’allontana.
Ho passato dieci anni d’inferno.
Io invece no. Io non ho fatto niente. Io ero in un letto.
e si ferma davanti a lei. Sembra le stia sputando addosso un urlo, un passato intatto, un’automobile. Sembra volerla picchiare. Sembra volerla tradire o soltanto punire. Ora Sabrina ha la faccia coperta e le maniche della maglia trascinate in avanti, fino a coprirle il palmo della mano. Smettetela, vorrebbe dire, ma resta zitta di nuovo.

 

Perché siamo arrivati a questo punto?
Leone, promettimi che sarai felice.
Non posso, ti mentirei.
Promettimi che ci proverai.
Tu ci proverai?
Io voglio solo che mio figlio esca dal coma.
Perché siamo arrivati a questo punto?
Non guardarmi così.
Ti amo.
E non dirlo, ché non ci serve ripetercelo. Salviamoci.
Andare dall’altra parte del mondo non mi servirà a dimenticarti.
Salviamoci.
Perché siamo arrivati a questo punto?

 

Io me ne vado.
Dove vai?
Via da qui. Via da questa casa.
Filippo, ti prego, aspetta…
Ti ho detto non toccarmi!
E sale di sopra in fretta. La sua valigia è già pronta. Già da due giorni. Una valigia semi vuota. Un cartone per metterci dentro pochi vestiti e poche storie, pochi ricordi e poche premesse. Nessuna promessa. Cecilia guarda la figlia. Ancora lì, ferma, rannicchiata come un cane. Sabrina abbassa subito gli occhi. La madre le si avvicina. Si fa strada lentamente. Cammina piano, quasi a non volersi far sentire. Come un ladro. Sabrina, con gli occhi abbassati, vede prima i suoi piedi, poi le sue gambe. Alza lo sguardo, solo un po’. Lascia andare una lacrima, non l’asciuga, non l’allontana.
Non dici niente?
E si siede accanto alla figlia, un po’ a fatica, un po’ stanca. Ha quasi cinquant’anni.
Sabrina si volta lentamente. Ha un’estranea accanto, la guarda. È sua madre. Quella che le prepara la cotoletta perché il pollo non le piace. Quella che le stira i pantaloni. Quella le fa la ricarica al cellulare. Quella che Non fare tardi, non salire in macchina con nessuno. L’abbraccia d’istinto. La stringe forte. Ha perso suo padre, oggi. Non vuole scoprire che lei non è lei. Piange forte e fa rumore. Torna piccola, senza trucco, senza leggings e senza tacchi. Torna ai suoi diciott’anni. Si stringono con tutta la forza che hanno in corpo, che è poca, ma abbastanza per non lasciar passare l’aria. Filippo scende il primo gradino, un po’ a fatica, adesso. Forse vuole convincersi che quella valigia sia pesante. Forse vuole convincersi che stia portando con sé qualcosa. Cecilia s’accorge di lui e lui di loro. Si alza, subito, d’istinto. Sa che non può far altro che fargli spazio per lasciarlo passare. Scende veloce, la valigia torna vuota.
Dimmi almeno dove vai.
Non sono affari tuoi. Io non sono affar tuo.
È vicino alla porta, manca un metro o due per uscire da questa casa. Si volta. Si guarda indietro. Non per prendere qualcosa che ha dimenticato. Non per cercare di ricordare se ha lasciato qualcosa che poi gli servirà. C’è solo una madre scheletrica e una sorella ancora bambina. C’è solo silenzio. C’è solo una casa che non gli appartiene. Non c’è niente che porterebbe con sé. Niente che rimpiangerà. Forse solo una foto della sua nonna; la foto che, da quando è morta, è sulla credenza. Angela sorride e non guarda l’obiettivo. La fissa per un istante, poi si volta di nuovo. Si chiude la porta alle spalle.
Questa non è casa mia, si ripete, una volta o due. Poi inizia a camminare. Non fa caldo come oggi. É Febbraio e anche il cielo sta per piangere.

 

È suo marito?
No.
Un parente?
No. Leone è un amico.
Signora, non posso darle alcuna informazione, mi dispiace.
La prego. La prego, mi dica qualcosa. Mi dica se ce la farà.
Questo non lo so. Ma le sue condizioni sono gravi.
Leone è morto per un cancro ai polmoni. È morto sei anni dopo la fine della loro storia. É morto implorando la vita, il destino o il caso di rivederla ancora una volta. L’ultima volta.

 

Piove. Piove forte. Filippo si ripara alla fermata di un tram. La sua valigia senza peso gli è accanto. I suoi capelli sono domati dall’acqua che li ha bagnati. Dovrà pur smettere prima o poi. Il cielo dovrà pur aprirsi e lasciare che i suoi piedi si asciughino. Andrà da Fabio, starà da lui per qualche tempo. Da loro. Con Anita e Gaia. Un’altra casa in cui sentirsi un estraneo, un altro letto con cui fare pace. Ma stavolta nessuno avrà pretese, nessuno gli chiederà di riconoscersi nella vita che vive. Nessuno gli chiederà di perdonarla, nemmeno di perdonarsi. O di scusarsi. Non c’è il Filippo che è morto, lì dentro. Non c’è niente che sia già successo. Non c’è nessuno che possa reclamare che sia già successo. Tira un sospiro di sollievo. Guarda la signora che gli è accanto, a pochi centimetri. Ha un cane in braccio. Piccolo e poco peloso. Lo stringe forte.
Che tempaccio.
Si.
Non farà conversazione con lei. Non la guarda nemmeno più. Il cielo piove a dirotto. La strada accoglie una cascata d’acqua grigia. Si sente qualche clacson, si intravede solo qualche ombrello.
Speriamo che smetta presto.
Ma non le risponde. Ricomincia a camminare. La valigia ora è piena d’acqua. E la pioggia gli sgocciola sulla fronte. Prima o poi dovrà pur smettere.

 

Vieni, accomodati.
Grazie.
Ricambia il sorriso di Anita. Ha un paio di jeans chiari, un pullover nero. I capelli mossi, come le onde d’inverno, sciolti sulle spalle. E gli occhi di quel colore che gli era rimasto impresso. Nocciola. Ha degli occhi grandi.
Aspetta, ti aiuto.
No, è zuppa d’acqua.
Non preoccuparti.
gli sorride.
E quei sorrisi iniziano ad infastidirlo. Smettila, stronza, che non sono qui per elemosinare pietà. Ho bisogno solo di una casa, ma non parla e torna cupo. Non sorride più.
Aspetta che ti prendo un asciugamano, cosi ti togli un po’ d’acqua.
Grazie.
Quella è la tua stanza, vai pure, ti raggiungo subito.
Cammina lento. È una casa piccola e colorata. Inciampa su una bambola. La scosta col piede, va avanti. Ci sono tante foto alle pareti, tanti giocattoli sparsi, una sveglia a forma di mucca, su un mobile basso e scuro. L’unico colore scuro di questo minuscolo corridoio. É arrivato. La stanza è tutta rosa. Il copriletto è a fiori. La scrivania è piccola, come quella della casa delle bambole. L’ha vista a sua sorella, una volta, quando era ancora bambina.
Fabio?
Alza un po’ la voce, sperando che Anita lo senta dalla stanza accanto.
È andato a prendere la pizza, è Gaia.
Si fa strada con la sua gonna a fiori blu. La sua Barbie nuda e i capelli chiari raccolti in una treccia.
Non si aspettava quella vocina, Filippo. Si volta, si rivolge verso la porta.
Ciao, Gaia, si sforza di sorriderle.
Ciao! Questa è la mia stanza.
È bella, le sorride di nuovo.
Mi ha detto la mamma che ci dormirai tu, adesso. Però posso venirci quando voglio giocare?
Resta zitto. Annuisce. Ha preso il posto di qualcun altro. Sta rubando ancora qualcosa a qualcuno. Vorrebbe dirle che può tenersela, questa stanza di merda. Questa stanza rosa. Vorrebbe mandare al diavolo quella bimba e la sua mamma. Andare via. Dormire su una panchina. Svegliarsi fradicio e non accorgersi più di tutta l’acqua che ha addosso.
Ecco l’asciugamano, gliela porge, Anita.
Grazie, abbassa gli occhi.
Tesoro, lasciamo Filippo un po’ da solo. Andiamo di là, papà sta per tornare con le pizze.
Però prima devo cercare la mia bambola, nella scatola dei giocattoli.
Gaia, la cerchi dopo. Adesso andiamo di là.
No, aspetta, è Filippo, Lasciagliela prendere. Vado io di là.
E si muove veloce. Si muove incerto, ma veloce.
Anita lo guarda.
Se hai bisogno di qualcosa…
Non ho bisogno di niente.

 

Capitolo 8

 

Ma possibile tu abbia sempre qualcosa da ridire?
Ti ho soltanto chiesto perché ci hai messo tanto a prendere delle pizze!
Te l’ho detto, c’era traffico.
Si, come no.
Lo vedi che sei tu che non mi credi?
Fabio, non alzare la voce.
Sei paranoica!
Ho detto abbassa la voce!
Va be’, io dormo qui sul divano, cosi evitiamo di fare casini davanti a Gaia.
Tu hai sempre una soluzione facile a tutto.
Cosa vuoi che faccia? Che t’implori di credermi? Che mi metta in ginocchio?
No, dormi pure qui. Io vado a letto.
Ecco, vai.

 

Filippo si rigira nel suo nuovo letto. Forse si sono scordati che è in casa loro, forse hanno dimenticato che adesso appartiene anche lui a questo teatro di destino irrisolti. Li ascolta e cerca di non sentire niente. Cerca di mimetizzarsi con i muri, con le lenzuola rosa, con le tende a fiori. È di nuovo nel posto sbagliato. Ha fatto ancora un passo falso. Ha tolto la camera ad una bimba. E si sente colpevole. Prova pietà per lei, la stessa che nessuno ha provato per lui. Prova la rabbia di quella bambina, perché qualcuno le ha preso il letto, i giocattoli, il tappeto con le stampe di animali, la sua scrivania piccola e colorata. E dovrà chiedere il permesso per tornare nella sua stessa vita. Un po’ come ha fatto lui. Un po’ come fa lui ogni giorno. Come un uomo che si sente in prestito nella sorte sbagliata, come le commesse nel periodo di prova, quelle dei centri commerciali. Quelle che poi vengono mandate a casa. E lui verrà mandato sotto un ponte, o se ne andrà per sua volontà. Scapperà da qui. Tieni, piccola, questa è tua. Non volevo rubarti niente. Io non sono come loro, e poi la vedrà sorridere mentre salta sul suo letto, mentre festeggia i suoi confini, quelli che un uomo brutto le ha rubato. Si inizia cosi, appropriandosi di un letto, di una parola, di un silenzio. E poi si finisce per togliere gli anni alla gente. Si finisce per rubarle i secondi, quelli che fanno il destino. Gli abbracci. Gli attimi che servono a stringersi, a ricordarsi d’appartenere a qualcuno. Filippo non sa più stringere. Non ha niente. Dentro corre un pensiero solitario, che urla e fa l’eco, che s’affaccia persino dai suoi occhi. Un pensiero per quella bimba che adesso dorme in mezzo, tra due genitori infelici. E stasera solo con la sua mamma, perché il suo papà, invece di prendere le pizze, è andato a scoparsi la cameriera del pub. Fabio le vuole bene a suo modo. Come Ugo. È sottoterra da dodici ore, ma sembra passata una vita. E ora Filippo si chiede se i morti sentano i pensieri. Se avvertano che qualcuno li stia pensando. Sta pensando a suo padre. Ma non per sussurrargli un Ti voglio bene tardivo, nel silenzio della notte. Ma per dirgli che forse diventerà come lui. Un ladro di vite altrui. Forse diventerà poco attento. Forse, domani, vedrà quella bambina piangere e si volterà dall’altro lato. Si tapperà le orecchie, s’attaccherà le ciglia per non aprire più gli occhi. E cosi si sentirà meno colpevole. O affatto colpevole. Ugo non sa di esserlo, non l’ha mai saputo. Perché Cecilia non gli ha detto che Filippo aveva scoperto quello che avrebbe dovuto scoprire lui. Non gli ha detto quello che lui avrebbe dovuto fare. E poi gli anni passano e ci si abitua a tutto. Teme di non essere diverso dalla famiglia da cui è scappato. Non basta un letto nuovo per non avere quel sangue sporco nelle vene. Non basta. E non basta nemmeno cancellare i numeri di telefono o un rullino di fotografie. Per riscattarsi, dovrebbe lasciare un biglietto con scritto Ecco, Gaia, ti restituisco la tua vita, ma si rigira nel letto, lo fa fino all’alba, fino a vedere le nuvole farsi di nuovo bianche. Non c’è il sole, oggi. Non s’intravedono i raggi. Oggi è come ieri, si bagnerà ancora e si stupirà di sentire che la sua valigia di colpo si è fatta pesante. Per poi aprirla e rovesciarsi addosso tutto il niente che si porta dietro. E dentro. Aggiungerà un’altra frase a quel biglietto Grazie per avermi fatto provare tenerezza per qualcuno. Non sapevo più come si facesse. Grazie perché mi hai ricordato da dove vengo e cosa non voglio essere. E sarebbe un passo avanti. Ma il biglietto non l’ha scritto, e ora è già mattina e si è addormentato. Quando si sveglierà, avrà dimenticato di aver rubato qualcosa a qualcuno. Avrà dimenticato gli occhi di quella bimba che, come i suoi, reclamano solo di poter scegliere. Di poter sbagliare. Di potersi svegliare nella propria casa, senza sentirsi estranei.

 

Fabio è già uscito?
Si, ha accompagnato Gaia a scuola, poi è andato al lavoro.
Annuisce senza rispondere, Filippo. È seduto a capo tavola, gliel’ha detto Anita di mettersi lì. Ci sono dei biscotti marroni, poco più in là. E qualche briciola sulla tovaglia a quadri.
Gaia lascia sempre tante briciole, sorride, Vuoi del latte?, aggiunge.
No, grazie. Non mi piace.
Nemmeno a me.
Si sente meno solo. Nemmeno a lei piace il latte. Pure a lei fa schifo. Forse le ricorda quei giorni che sua madre la mandava a comprarlo, o un padre che leggeva il giornale. O forse le fa schifo e basta, senza un motivo. Si sente di nuovo solo.
Scusaci per ieri sera.
Come?
No, dico… io e Fabio. Abbiamo discusso. Scusaci.
Non devi chiedermi scusa. Non a me.
Anita si ferma a guardarlo. Non a me. Non capisce, è stranita. Raccoglie le briciole, prende la tazza sporca di caffè, ormai mandato giù. Non gli chiede cosa volesse dire. Gli fa un cenno con la testa, abbassa gli occhi.
Scusami tu.
Come?, ora è lei.
Scusami se mi sono intrufolato in casa vostra. Questo non è il mio posto, lo so.
Forse tutti noi stiamo cercando il nostro posto.
Che vuol dire?
Vuol dire che non sei tu a doverti scusare. Dovremmo farlo tutti.
Non capisco.
Io, tu, Fabio, tutti noi. Dovremmo chiederci scusa. Ma non a vicenda, a noi stessi.

 

Anita, un figlio non è un gioco. Non è un giorno.
Lo so, mamma.
E tu sei poco più che una ragazzina.
Questo non c’entra. Io porto dentro mio figlio.
Io ti sono accanto.
Mi basta questo. Nascerà.
E tu e Fabio?
Noi ci amiamo, a modo nostro, ma ci amiamo.
Dovrebbe capire anche lui che un figlio è per sempre.
Magari l’ha già capito. Io non gli ho chiesto niente. Io non gli chiedo niente.
Sei giovane, ma sei una donna forte. Sei diversa da me.
Ti sbagli. Io non sono forte.
Io non avrei reagito così.
Sento che sarà una femmina.
Anch’io, quando aspettavo te e tua sorella, ero certa sareste state femmine. Una mamma certe cose le avverte.
Mia figlia si chiamerà Gaia.
È un nome bellissimo.

 

Che vuol dire che non puoi?
Fa su e giù.
Te l’ho detto, devo andarci io. Ok, va bene. Si. Si. Ho capito, Fabio. Troverò una soluzione. No, ti credo. Va bene.
Silenzio.
Ho detto che va bene. Si, ciao. Ciao. Ciao.
Qualche problema?
Filippo la guarda negli occhi. Lei abbassa lo sguardo, riaggancia.
Devo andare da mia madre. E devo anche prendere Gaia a scuola.
Non preoccuparti, ci vado io.
Glielo deve. A quella bambina ha rubato il letto. Le ha rubato la casa. Il suo colore rosa, la scatola con i suoi giocattoli. Glielo deve.
Mi faresti un favore, grazie.
Solo che ci metteremo un po’. Siamo a piedi.
Anita gli sorride. Rannicchia le spalle.
Riscalderemo la pasta, la metterò in forno.

 

Si guarda intorno. Ha i capelli stretti nella treccia di ieri sera e le scarpette scure. Uno zaino enorme, sembra la sovrasti, sembra sia lui a portarla sulle spalle. Corre fino alla porta, poi si ferma. Qualcuno la spinge, qualcuno la saluta. Ciao, Gaia, a domani e lei alza la mano. Si ferma e si guarda intorno. Non c’è la sua mamma. Filippo la osserva. Sente la pelle d’oca. Anche lui si fermava davanti al portone e aspettava la sua mamma. E gli occhi si facevano piccoli e lucidi, quando lei non era lì, con il suo sorriso, i suoi ricci e la gonna appena sopra le ginocchia.

 

Non arrivavi più.
Ma no, ero solo dietro le altre mamme.
Credevo che fosse nata la mia sorellina.
No, tesoro, lei è ancora qui, nel pancione della mamma.
Posso ascoltarla?
Per ora è tranquilla. Ma, appena muoverà i suoi piedini, te la farò sentire.
Mamma…
Dimmi, Filippo.
Mi verrai a prendere a scuola anche quando sarà nata?
Certo.
Tutti i giorni?
Tutti i giorni.

 

Fa un piccolo passo in avanti, Gaia. E i suoi occhi diventano piccolissimi, come quelli di Filippo. Decide di avvicinarsi verso di lei, di farsi strada tra quelle mamme che fanno sempre le stesse domande e fingono compiacenza nel ricevere sempre le stesse risposte. Cos’hai fatto oggi a scuola?, Niente, Come niente?, Niente!. È così piccola, somiglia a sua madre. Gli occhi sono uguali. Solo i capelli sono più chiari. Di Fabio ha il mento e il naso. È bella. E lui le ha tolto qualcosa. Deve farsi avanti, dire una parola, anche una soltanto. Un Ciao, oggi ci sono io, un Scusami, un Che cazzo ci faccio in mezzo a tutti questi bambini?

 

Gaia?
Filippo… dov’è la mia mamma?
Cerca di sorriderle e di essere convincente. Cerca di non essere imbranato e di rispondere nel modo giusto. Ché, con i bambini, le parole sono importanti, è importante come s’attaccano l’una con l’altra, come s’attaccano ai sorrisi che l’accompagnano. Con i bambini non si deve sbagliare, che poi lo ricordano per sempre. Che poi non dimenticano. Che poi ti ricordano come quello che ha detto Se vuoi, vieni con me, se no te ne torni a casa da sola. Non m’importa di te. Non m’importa niente. Mi fai solo pena, perché sei come me. Ti ho derubata di qualcosa.
Gaia è spaesata, lo guarda fisso in faccia e aspetta una risposta. Lui si abbassa un po’.
Vuoi che ti porti lo zaino?
Dov’è la mamma?
È andata a trovare la nonna, ma quando saremo a casa, sarà già tornata. Allora, me lo dai questo zaino?
E glielo mette tra le mani. Non pensava che una bimba di prima elementare avesse un peso tanto grande sulle spalle. Fa fatica, all’inizio.
Oggi torni con me a casa.
cerca di sorriderle di nuovo, di essere sicuro di sé.
E papà?
Al lavoro.
Si sistema lo zaino su una spalla. Lei gli cammina accanto.
Dove hai parcheggiato la macchina?
Si ferma, lui. Lui non guida. Non ha una macchina. Che stronza, balbetta.
Torniamo a casa a piedi. Io non guido, dice poco dopo.

 

E perché non lavori?
E tu perché sei cosi curiosa?
Sembra un’adulta, Gaia. Gli cammina vicino, muove le braccia, avanti e indietro. Le lascia libere e sembra che non percepisca che stia camminando. Filippo ha il fiatone. É un vecchio. Lei no, lei non s’affanna, i passi lenti e incerti non la cambiano. Si rivolge a guardarla. Cosa ci fa con una bimba accanto? È una bimba curiosa. Una che vuole sapere che lavora faccia, quanti anni abbia, perché abbia la barba incolta. Una che non sta zitta. Una con cui non potrebbe andare d’accordo. Ti riporto a casa solo perché sei figlia di un mio amico, vorrebbe dirle. Ma i bambini poi non ti perdonano. E si sente in colpa verso di lei. E già sente che lei lo odia perché, come un nomade raccattato dalla strada, ha preso le sue cose. Le sue lenzuola. Quelle su cui ha avuto gli incubi la notte, quelle su cui ha ascoltato i suoi genitori litigare. Senza capire, forse. Senza capire perché gli adulti parlino tanto, urlino tanto, non tacciano mai.
Che vuol dire che eri in coma?
Chi te l’ha detto?
Resta fermo, lui, di nuovo. Lei continua a camminare, più svelta e più curiosa.
Che fai, non cammini?
Aspettami!
Cosa debba risponderle, davvero non lo sa. Bisogna darle qualcos’altro per cui stupirsi, forse. Bisogna mostrarle gli animali che camminano sugli alberi. Le formiche che si schiacciano inavvertitamente. Filippo non riusciva a camminare tranquillo, quand’era bambino, senza pensare a tutte le formiche indifese che s’attaccavano alle sue scarpe. Da piccolo, guardava bene per terra, andava lento, cercava di evitarle. E sua madre lo richiamava, Sbrigati, Filippo, fai presto!. Ma lui non voleva schiacciarle, non poteva non prestarci attenzione. Voi grandi non capite niente, le diceva a volte. E ora non capisce perché quella bimba saltelli per la strada, fregandosene di ciò che schiaccerà. Sei una bimba insensibile, potrebbe dirle. E poi spiegarle cosa vuol dire. Sei come tuo padre, sei superficiale e lei potrebbe continuare a non capire. É come tutti gli altri bimbi. Fanno finta di non capire e poi ti infilano un coltello alle spalle. Lui li conosce, sa come sono fatti. C’è una parte di lui che non crescerà mai. Una parte di lui che è come Gaia. E un’altra che non conosce gli adulti. Li scansa. Gli fanno paura.
Allora?
Cosa vuoi sapere?
Cosa vuol dire che eri in coma? Ho sentito papà che ne parlava con mamma.
-Vuol dire che dormivo. Che ho dormito tanto.
Tutta la notte?
Un po’ di più.
E quanto?
Tanto.
Tanto così?, allarga le braccia, le usa come unità di misura.
Tanto così, lo fa anche lui. Le sorride.

 

Non parla più. Pensa a questo signore che le è accanto. Un signore che ha dormito tanto così. Un signore che sembra non abbia la forza di camminare, è lento, lei è sempre un metro in avanti. Uno che sorride di rado. E risponde in ritardo. La guarda, mentre si dondola davanti ai suoi occhi. Forse Fabio una cosa buona l’ha fatta. Una bambina bella. Troppo curiosa, troppo rumorosa, ma bella. Ricorda quando sua sorella aveva l’età di Gaia. Capitava che andasse a prenderla a scuola, allora lui aveva sedici anni. Se ne vergognava un po’. Aveva i pantaloni all’ultima moda e una sorella per mano. Una sorella viziata e dispettosa. Ma era bella come lei. Bionda e piccola.

 

Mi compri la cioccolata?
No, Sabri, non ho soldi con me. Dai, che ho fretta, torniamo a casa.
Ti prego, ti prego, ti prego!
Ti ho detto di no!
Ma poi lei aveva la meglio. Soprattutto quando passavano davanti al chiosco sotto casa. Quando le venivano gli occhi lucidi e rossi. Ha sempre vinto lei.

 

Guarda, Filippo, un aereo!
Dove?
Lì, guarda!
e lo indica col dito. Lui non lo vede. Poi lo scorge tra le nuvole.
Hai la vista di un falco.
e lei forse non ha capito, ma gli sorride. E resta a guardare quel piccolo oggetto bianco che si sposta lento e lascia una lunga scia che taglia il cielo a metà.
Tu sei mai salito su un aereo?
Si, si schiarisce la voce, cammina più veloce, la raggiunge. Una volta, aggiunge.
Papà mi ha promesso che mi ci porterà l’anno prossimo.
Non ascoltarlo. Lui è un adulto. E gli adulti dicono tante bugie. I vecchi, come la mia nonna, sanno mantenere le promesse, ma preferisce non parlare. Si ferma a pensare un istante alla sua nonna, ma non dice niente. Lei riderebbe di lui, adesso. Timido e impacciato, con una bimba che ne sa più di lui. Una bimba che sa sorprendersi. Filippo non si sorprende più di nulla. Ha le mani congelate. E anche il cuore. Non può riscaldarsi, può solo cadere e rompersi. Angela ride di gusto, ha la faccia stropicciata, gli occhi minuscoli. Ma ride di gusto, fino ad avere una fitta al fianco destro.

 

Nonna, guarda, un aereo!
Mi vengono le vertigini solo a guardarlo.
Ci sei mai salita?
No, per carità. Non ci salirò mai.
Io voglio andarci! Dev’essere bellissimo!
Ma da lassù non vedi niente, solo terra e acqua. Guarda che belli questi fiori.
Ma io voglio toccare le nuvole!

 

Dammi la mano.
Filippo la guarda sgomento. Vuole la mano. Si sistema lo zaino sulla spalla, sente che gli stia per cadere. Gaia lo osserva e non capisce perché non capisca. Vuole la mano.
Perché?
Perché dobbiamo attraversare la strada. E la mamma dice che bisogna dare la mano ad un adulto prima di attraversare la strada.
Non dice niente. Resta fermo, immobile. E lei non aspetta che lui capisca. Gliela prende. Gliela afferra con fare sicuro. Gli sorride.
Ora possiamo attraversare, gli dice.
Le loro mani si stringono. Sente il cuore che gli batte forte, Filippo. Lui è un adulto. Uno di quelli che proteggono i bambini, quando si attraversa. Uno di quelli che deve fare attenzione, perché una macchina potrebbe schiacciarli, come fa Gaia con le formiche. Ma lui la salverà. Magari non le restituirà ancora il suo letto. Ma lui è diverso dai suoi genitori. Lui la riporterà a casa. La sua manina è piccola e calda. La stringe ancora e le fa strada. Il semaforo è verde. Camminano.
Saltiamo insieme sulle strisce bianche?
La guarda sgomento di nuovo.
No, Gaia. É meglio di no, guarda quante macchine. Attraversiamo veloce.
lui questa bambina deve salvarla, deve riportarla a casa dalla sua mamma. Deve fare del suo meglio.
Ce l’hanno fatta. Sorride a se stesso.
Puoi anche lasciarmi la mano, le dice.
No, ti tengo, risponde lei, Cosi cammini più veloce, e gli sorride.

 

Dormi?
La porta è socchiusa. Anita entra nella sua stanza.
No, sono sveglio.
si volta, accende l’about-jour.
Volevo ringraziarti per oggi.
Figurati.
Spero non ti abbia fatto mille domande, come fa sempre.
È una bambina sveglia.
I bambini sono svegli. Sono sempre svegli. E sono leggeri.
Sono diversi da noi.
Anche noi potremmo essere diversi da noi, se c’impegnassimo.

 

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