IO BASTO A ME STESSO – capitoli 9 – 10

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Capitolo 9

 

 Diario di Filippo

 

Stasera Gaia è venuta a darmi la buonanotte. Mi ha chiesto Perché non ridi mai? e io le ho sorriso. Mi ha detto, però, che non faccio rumore. Mi ha detto che, quando le persone ridono, fanno rumore. Io mostro i denti, ma sto zitto. Non mi muovo. Non mi agito. Io rido così, volevo dirle, a bocca stretta. Ma lei è piccola, lei è vergine di rabbia e ragione, ha già smesso di odiarmi per aver rubato il suo letto. Sono qui da pochi giorni e già ha smesso di odiarmi. Io non dimentico. Lei trova divertente che io sia un adulto e non guidi. Mi trova buffo, io mi sento in difetto. Io mi sento un difetto.  Lei è curiosa di sapere perché io non rida. Io ho paura perché so perché non rido. Lei è felice di mostrarmi i compiti che ha fatto a scuola. Guarda, la maestra mi ha detto che sono brava, mi racconta. E a me non interessa. Lei mi sorride perché si aspetta che lo faccia anch’io, ma io le dico che ho sonno. Ma non dormo. Voglio tornare bambino. Voglio essere un suo compagno di scuola, sedermi al suo fianco, ridere della sua maestra impacciata. Di un adulto che viene a prendermi a scuola, ma lo fa a piedi. Vorrei ridere di me stesso. Ma io non so ridere. Gaia mi ha insegnato che so mostrare i denti, ma non so ridere.

 

Siamo soli?
Si, Fabio non torna a cena.
Ah, va bene.
Filippo, non guardarmi così.
Così come?
Come uno che elemosina pietà.
Credevo lo facessi tu con me.

 

Mi capita di fermarmi a guardarla, lei si volta dall’altra parte prima che io le legga in faccia la sua infelicità, che conserva come fosse il solo antidoto alla sua vita. Alcune volte penso che una donna così si possa soltanto odiare. È una che m’interrompe prima di portare a compimento una frase, non mi dà l’ultima parola, mi toglie l’ultimo respiro, quello di cui conservo il ricordo per non dimenticare come si fa. Anita è una che ha da dire, per chi sa ascoltare. Una che ha un fiume negli occhi, un fiume senza dighe, sciolto come un cane randagio. Una che porta sulle spalle il peso di essere giovane. Il peso di essere vecchia. Porta addosso l’infelicità. È un delfino nel guscio di una tartaruga. Non credevo fosse così, Fabio non l’aveva descritta cosi. È una rompiballe, mi diceva. E dimenticavo chi è lui. Lui è così, è un superficiale, uno che vede solo quello che si vede. Anita è un bosco senza alberi, senza ombra e senza occhi lucidi. È svuotata. È una mamma che, ogni mattina, prepara la colazione. Mette il latte a tavola, ma le fa schifo. Prepara il pranzo, ma non è brava in cucina. Ho dovuto imparare, mi ha raccontato. È una che non mi chiede perché non rido, perché non piango, perché sto zitto, perché non guido, perché ho la barba incolta e arrabbiata. È una che non chiede. È una che mi guarda e scosta lo sguardo. E mi fa paura. Mi fa paura perché, a volte, sembra mi stia leggendo addosso qualcosa. A volte sembra mi stia leggendo addosso la mia storia stentata. Siamo fatti di stenti, io e lei. Forse per questo mi capisce. Oppure sa soltanto mentire. Forse non capisce un bel niente, ma sa osservare. Ma mi accorgo di quando mi chiude la porta, ogni sera, come fossi un bambino. Mi accorgo di come mi guarda, quando le dico Andate pure, io resto alla tv. Mi accorgo di come mi parla, quando le racconto che io Non credo in Dio. Mi guarda come una che vorrebbe domandarmi Perché sei capitato in questa casa?. Anita butta a terra segnali. Butta tozzi di pane, tozzi di silenzi. Di vuoti. E vorrebbe che qualcuno li raccogliesse.

 

La cena puoi riscaldarla nel microonde, se vuoi.
No, non ho fame. Faccio una doccia e vado a letto.
Hai mangiato fuori?
Si.
Aspetta.
Dimmi.
Fabio, io e te non ci bastiamo più.

 

Non hanno urlato. Forse, in silenzio, ci si ferisce meglio. Forse ci si ferisce di più quando non si ha fiato per parlare. O parole per riempire il vuoto d’altro vuoto. Oppure non si viene più scalfiti da nulla. Vivo nella casa degli orrori. Siamo tre pezzi di ghiaccio. Siamo tre morti. Siamo tre manichini rotti. E poi c’è una bambina che ci guarda e ci umilia coi suoi sorrisi. Con i suoi invadenti Perché?. Io sto bene con loro, perché in questa casa non si ama. Nessuno sa farlo. Siamo come l’intonaco dei muri. Siamo colorati, ma finti. E cadremo tutti a terra e ci sporcheremo di noi stessi. O forse lo facciamo già. Qui non mi sento di troppo perché non c’è posto per i cuori. C’è posto solo per frasi troncate, briciole sul tavolo e bicchieri sporchi. Proporrò di metterci tutti nel microonde e riscaldarci. Riscaldarci i giorni. Parlarci da grandi. Noi siamo incidenti, siamo ambulanze senza suono. Siamo le foglie che cadono.

 

Anita ha già imparato che nel caffè metto poco zucchero. Non mi chiede quanto ne voglia, lo fa automaticamente. È una che impara. È una che guarda i gesti, come muovo le mani, come uso il cucchiaio per girarlo nella tazza. È una che mi lascia perplesso. Una che ha scelto di stare con Fabio. Lui non è capace di imparare. Lui sa tutto. Ed è tutto quello che sa.

 

Tu ne vuoi?
No, non mi piace.
Sabrina era troppo piccola allora, interveniva mia madre, per giustificare la disattenzione di mia sorella. Poi, rivolgendosi a lei, A tuo fratello non è mai piaciuto il latte.
E ci guardava entrambi, come un prete sull’altare, quando teme che uno dei due dica No, non lo voglio. Ci guardava grandi e diversi. Mia sorella non sapeva che non mi piaceva il latte. Mi chiedeva se ne volessi, per pietà o per educazione. Eravamo estranei nello stesso nido, nello stesso fiato sprecato.

 

Quando torna, ogni sera, mi racconta la sua giornata di lavoro. È uno insoddisfatto. E io lo guardo e vorrei ricordargli che voleva fare l’avvocato. Mi ci vedo già in tribunale, diceva. Lo diceva in classe, con fare sicuro, durante la ricreazione. E le nostre compagne erano innamorate di lui. Era uno che faceva innamorare le donne, Fabio. Ora è un disadattato. Le fa innamorare ancora, ma per noia. Le guarda, le sceglie, se le porta a letto. Arriva a casa, le dice che è stanco, che è stanco di lei. Gridano un po’, gli umori si assottigliano, le cene si raffreddano. E vanno a letto. Stesso letto e schiene che si sfiorano, le loro schiene sono come scudi per proteggersi, per non colpirsi gli organi. Per sopravvivere. Questa è la casa dei sopravvissuti. Di quelli che combattono e la sera portano i malumori sulla tavola, mischiandoli col vino e l’insalata. Quelli che mangiano silenzi e vomitano grida. Prima o poi me ne andrò, questo non è il mio posto, continua a ripeterlo. E io penso a Gaia. Perché quella rompiballe di sua figlia merita un padre diverso. Merita uno che sappia ascoltarla. E io provo tenerezza. Io sono un sopravvissuto, come loro. Io non devo provare niente. Ma alcune volte vorrei saper dire qualcosa. Vorrei saper ridere come lei vorrebbe. Dirle Ci sono io, loro sono grandi. I grandi sono cattivi. Io ho la loro stessa età, ma sottraendo i dieci anni che ho dormito, sono molto più piccolo. Gaia, io sono un bambino gigante, vorrei saperle dire. Vorrei saper giocare con lei. Ma io sono una ringhiera arrugginita. Fabio è un tronco spezzato. Anita è quasi l’autunno. Forse l’unica a dover scappare è quella bimba che dorme tra di loro. Lei dovrebbe salvarsi da noi. Ma come si può dire a una bambina di sei anni che deve salvarsi da chi l’ha fatta, da chi le dice Ti voglio bene?

 

Meglio essere vecchia che grande. I grandi a me non piacciono.
Nonna, è la stessa cosa.
No, Filippo, non è la stessa cosa.
Ma tu sei grande.
Io sono vecchia, ma sono stata grande, certamente. Lo sarai anche tu. Ma spera di passarci in fretta. E di riuscire a sopravviverci.
Perché?
Perché quelli sono gli anni che non sai più parlare ai bambini, che non sai farti capire dai vecchi. Sono gli anni di mezzo, gli anni che sbagli e non te ne accorgi.
E poi che cambia? Sei sempre la stessa persona.
Poi cambia che hai già sbagliato.
Si può sbagliare ancora.
Se non sapessi che il fuoco può bruciarti, dopo averlo toccato la prima volta, lo toccheresti ancora?
Quel giorno non le ho risposto. Angelina era bella, ma sapeva troppe cose. E io ero orgoglioso. Non sapevo ammettere che avesse ragione. O forse non potevo saperlo. Non ero ancora in alto mare. Ero sulla sponda dei giusti. E lei nell’altra, quella degli altri giusti. Ora sono nel mezzo. Vorrei poterle rispondere. Vorrei dirle che è come diceva lei. Chi sa che ci si brucia, col fuoco non gioca più. O continua a farlo perché non sa crescere. Ecco, nonna, io sono uno che non sa crescere, perciò non avevi ragione, le direi. Vorrei che mia nonna fosse in questa casa con noi. A dirci che siamo dei coglioni, degli incapaci, dei burattini senza fili. Vorrei scoppiasse a ridere mentre cerco di spiegarle che io non so farlo. E che mi dicesse Se te ne rendi conto, sei già salvo per metà. Vorrei mi accarezzasse la barba e mi dicesse Tagliala e io la taglierei. Vorrei mi dicesse che non voleva che diventassi così. Vorrei che mi urlasse addosso. Vorrei che non mi perdonasse. Vorrei non sentirmi così solo. Quello che voglio è alzarmi, domattina, e sorprendere quella bambina, dirle Oggi ti porto a volare e farla felice. E poi accorgermi che è da tempo, ormai, che non mi fa più quella domanda, Perché non ridi mai?

 

Capitolo 10

 

Torniamo insieme.
Viviana, smettila. Mi stai esasperando.
Io ti ho aspettato per dieci anni.
Nessuno te l’ha chiesto.
E lei zitta, come un fiore appassito, in un giorno d’autunno. L’ha aspettato per tutta la notte sotto casa di Fabio e Anita. Aspettava che uscisse, che si accorgesse di lei, della sua matita stropicciata e dei suoi capelli raccolti in maniera confusa. La faccia stanca, le borse sotto gli occhi, gli occhi arrossati. Gli ha chiesto un’altra possibilità. Gli ha ricordato di quando si baciavano sotto la pioggia e non sentivano l’acqua, sulle loro teste, che poi scendeva sul collo e li inondava. Erano un’alluvione. Erano la pioggia battente, che ora batte sul niente. Batte su teste vuote. Su teste con la riga ancora in mezzo, dopo dieci anni. Su teste che chiedono di essere guardate ancora una volta. Piove su un terreno già pieno di pozzanghere, piove sulla neve ormai sciolta. E Filippo la guarda come fosse un’estranea. Lei continua a dirgli com’era, come si allacciava le scarpe, come dormiva. Come poggiava la testa sul cuscino. Continua a ripetergli che è la dimostrazione che nella vita non è mai troppo tardi. Mai troppo tardi per cosa?, le ha chiesto lui. E lei si è sporcata ancora un po’ il volto di trucco sbiadito. Ha cercato un suo abbraccio, l’ha pregato di stringerla. Di provare ad essere una cosa sola. Io non so nemmeno più chi sono. È da poco giorno e la città sembra un motore freddo che inizia a riscaldarsi. Le luci dell’alba sono scivoli che si scontrano con i primi rumori del mattino. Il cielo è rischiarato e lui vuole soltanto tornarsene in casa. Non doveva uscire. Non doveva incontrarla. Non doveva cercare di farsi tornare alla mente chi fosse. Era uno che amava questa donna, una che non conosce, che non riconosce più. Ha paura di lei. Ma noi ci amavamo, gli ripete, instancabile. Forse sì, ma io di tanto amore non ne ricordo il motivo, ma è rimasto in silenzio. In silenzio a guardarsi intorno. Non c’è niente. Solo qualche albero che reclama le foglie verdi. E una ragazza che reclama il suo passato.
Io non ho passato.
Ma io mi ricordo di noi.
Io non ricordo più niente. Non voglio ricordare più niente.
Diamoci un’altra possibilità.
Un’altra possibilità a chi?, ma resta zitto e si stringe in una giacca invecchiata. Si sta sforzando di crescere, Filippo. Si sta sforzando di essere al passo con i trent’anni che compirà tra pochi mesi. Vuole imparare ad essere un uomo. Uno che sa camminare sui marciapiedi, senza temere che un’auto da un momento all’altro lo ammazzi. Uno che sa dormire, ogni notte. Uno che sa fare la spesa. Non vuole essere la copia ingiallita dell’adolescente che è stato, quello che gli scalini li faceva a due a due e non aveva il fiatone. Vuole essere quello che va a prendere una bimba a scuola e sa tenerle la mano, quando devono attraversare la strada. Vuole essere uno che sa attraversare. Quello che non c’è, non tornerà più. È come pretendere che dopo l’estate venga l’estate un’altra volta. È come guardarsi allo specchio e vedersi sbarbati e più bassi. Viviana è ferma a una vita fa. Quando ogni discorso finiva dove oggi comincia. Quando ogni parola aveva un peso che ora le manca. Quella è la storia di altri due innamorati, di due romantici, di due sognatori tolti ai ricami della vita. Due che sono sotto le macerie di una guerra che ha lasciato fango e rimpianti.
Io rientro. Viviana, non venire più qui.
Io non posso vivere senza di te.
Puoi vivere benissimo.
Ti prego, aspetta.

 

Ti ama ancora, non è così?
Lei ama un morto.
Anita apre la porta e lo lascia passare. Filippo cammina lento e sconfitto. Va in salotto, si siede sul divano più piccolo, quello vicino alla finestra. E lei si ferma a pochi metri, seduta al lato opposto. Lo fissa. Vorrebbe dirle di voltarsi. Vorrebbe dirle di non guardarlo.
Perché mi fissi?
Lei ti tratta come se questi dieci anni non fossero passati, non è vero?
Tu sai sempre tutto.
Tu sei come me. Tu sei senza passato.
Si guardano entrambi, adesso. E sentono addosso il peso di due storie che si somigliano. Sentono lo scricchiolio di due passati arrugginiti, prestati al rimpianto e alla rabbia che costa. Si penetrano gli occhi. Percorrono i loro muscoli, i loro musi stretti, i silenzi di una rassegnazione stanca. Si spogliano e si vergognano, come chiunque non sia abituato a restare. A restare di un parere. Ma, quando la vergogna finisce o allenta la presa, l’abitudine ne è la sola conseguenza. E si smette di sentire freddo, di aver paura, di temere un giudizio. Si smette di fare domande e si inciampa sulle risposte. Gli occhi di Anita non si rimpiccioliscono. Diventano enormi, straripano anni come fossero onde spinte dal maestrale. E non riescono a smettere di guardarsi, di chiedersi cosa ci facciano sotto due così sotto lo stesso tetto. Due malati. Due reduci di un combattimento senza vinti, senza vincitori. Due con le cicatrici negli occhi e nelle mani.
Che fine ha fatto il tuo passato?
Anita sorride, si scosta i capelli. Non sa cosa dire. È senza parole. Senza valigie di parole.
È sotto le mie macerie, risponde a denti stretti.

 

Com’è successo?
Non lo so, non so spiegarmelo. La guardavo, mentre lei giocava. Mi sono distratta un attimo soltanto e ho sentito quel rumore.
Anita, dovevi aver cura di lei. Non dovevi distrarti un attimo.
Lo so.
Sei un’irresponsabile.
Non guardarmi così, papà.
Come dovrei guardarti?
Non alzare la voce.

 

Vuoi un caffè?
Si, grazie.
Anita si sposta in cucina. L’aria è viziata. Filippo le cammina di fianco, si muove incerto.
Siediti, lo preparo subito.
Grazie.
E si siede a capo tavola. Non ha chiesto se prima quel posto appartenesse a qualcuno. L’ha occupato senza pensarci, senza sentirsi in colpa. Ha smesso di sentirsi in colpa persino per il letto di Gaia. Ha imparato in fretta a sentirsi a suo agio tra questi avanzi di guerra.
Anita riempie la moca di caffè, la chiude con forza. Accende il fornello, quello piccolo, a destra. Ci mette la caffettiera sopra.
Lo so, sorride, Il mio caffè fa schifo.
A me piace, e prova a sorridere anche lui, impacciato e poco convinto, persino poco convincente.
Si siede accanto a lui, alla sua sinistra. Aspettano che l’odore del caffè scacci quest’aria cupa. Che li distragga dal silenzio di quello che potrebbero dire. Abbassano entrambi gli occhi sul tavolo, senza tovaglia a quadri e senza briciole. Ha già rimesso tutto a posto, Gaia ha sporcato tutto, come al solito. Ma lei ha riordinato. E ora è tutto perfetto, il legno è lucido. E queste sedie sono comode, non come quelle di Viviana. Anita alza lo sguardo per incontrare il suo. Lui guarda altrove, guarda la tv spenta e spera che ci sia qualche rumore ad ammazzare questi scheletri che s’aggirano intorno al tavolo. Gli occhi color nocciola di lei si fermano su una foto di Gaia, aveva due anni e mezzo. Era tonda e colorata. Gliel’ha scattata il giorno di Carnevale.
A me il Carnevale non è mai piaciuto.
Nemmeno a me, ora è Filippo a guardarla.

 

È solo colpa mia.
Non è colpa tua.
Se non mi fossi distratta…
Non è colpa tua.
Ho ammazzato mia sorella.
Non dire così. Non dirlo più.
Papà mi odia, lo vedo come mi guarda.
Sta soffrendo, Anita. È un padre che soffre. Abbiamo perso una figlia, ma non è colpa tua.
È giusto che mi odi. Mi odio anche io.
Sara è il nostro angelo. Lei veglia su di noi.
Io non credo agli angeli.

 

Anita sa bene quanto zucchero voglia Filippo nel caffè. Fa tutto lei, lo gira un po’. Glielo porge.
Grazie.
Non ringraziarmi sempre.
Ti ringrazio perché non mi hai chiesto se volessi il latte.
Non sopravvalutarmi, sono un’egoista. A me non piace e spero che non piaccia nemmeno agli altri.
Le sorride. Forse è solo un’egoista. Una che ha sofferto e che spera che agli altri sia capitato lo stesso. Una così come ha fatto a scegliere Fabio? Filippo se lo chiede più volte, mentre la vede soffiare sul loro caffè nero e bollente. Poi sorride a se stesso, lui ha scelto Viviana. Forse Anita era un’altra, una donna diversa, una che sapeva ridere di ogni cosa. Forse era una superficiale, come lui. Come suo marito. Poi è cambiata, forse. Forse la vita l’ha cambiata, l’ha tradita, l’ha delusa.
Quando è morto, mio padre mi odiava.
Io odiavo lui.
Hai fatto in tempo a dirglielo?
No.
Io invece sapevo che non mi aveva perdonata. Una come me non si perdona.
Anita, chi sei tu davvero?
Una fuggitiva. Una che scappa.

 

Tu e Fabio potete venire a vivere qui.
No, mamma. Faremo qualche sacrificio, ma vogliamo una casa tutta nostra.
Ma siete ancora cosi giovani…
Non c’è un’età per crescere. Si cresce quando si ha l’occasione giusta per farlo.
Sei sicura che sia la tua occasione?
Sono incinta. E innamorata.
E lui ti ama?
A modo suo.
E ti basta?
Voleva solo scappare da quella casa. Voleva soltanto non vedere più sua madre dormire da sola, nel suo letto intatto per metà. E la camera di sua sorella vuota. La sorella che lei ha ucciso, per la distrazione di un attimo, per una distrazione d’adolescenza. È un’egoista, Anita. Una che scappa per salvarsi. Una che non ha mai imparato a bastarsi.

 

All’inizio pensavo che il mondo si fosse addormentato con me.
Non dev’essere stato facile scoprire il contrario.
Affatto.
Le tazze sono vuote. Sporche e vuote. E i cucchiaini sono poggiati accanto, reduci da quel caffè bollente, che hanno mescolato come una centrifuga. Sono sazi di quella bevanda nera e dei loro occhi che si cercano. Cercano altro dolore per capirsi ancora. Per sentirsi meno soli e meno insipidi. Filippo le guarda le mani, come le muove. Forse è nervosa, o forse è sempre così. Quando la rabbia ti cambia, le mani diventano nodose e gracili. Deboli. Sembrano rompersi a pezzi. Sembrano chiedere scusa per non essere come la faccia, che forse prova a mentire. Le mani non hanno i denti, non possono sorridere. Hanno i calli. E le crepe, come i muri. Una casa non si riconosce dai mobili di legno pregiato, ma dai muri che disegnano crepe e buchi. Dai muri che stanno per cadere. Anita ha mobili pregiati e pareti barcollanti. Vorrebbe dirle che la capisce, Filippo. Vorrebbe dirle che sono due egoisti. Due persone in fuga dalla loro stessa vita. Vorrebbe dirle che ha voglia di abbracciarla. E, mentre ci pensa, sente la pelle d’oca sulle braccia.
Io non so abbracciare.
Lo dice d’istinto. É una forma di difesa. Vuole proteggersi dal suo sguardo, che lo disarma.
Forse non ci hai mai provato.
Le sorride. É una saccente, una che usa il suo dolore per insegnare qualcosa agli altri. Lui una donna così potrebbe soltanto odiarla.

 

Non ho mai portato mia figlia al parco, a giocare con la bicicletta.
Quanti anni aveva tua sorella?
Quasi cinque.
Non piange, non le manca nemmeno il respiro, non si piega. Guarda il vuoto, ricorda quel giorno. Quel giorno che un uomo qualunque l’ha schiacciata e lei era rivolta altrove. Era distratta. Era estate.
Sono passati più di dieci anni.
E tuo padre?
Lui è morto un anno dopo. Non mangiava più. Non beveva più il vino, la sera, a tavola. Ho ammazzato mia sorella e mio padre.
Filippo abbassa gli occhi. Sono tutti assassini. La donna che ha accanto è un’assassina. Lui è un assassino. Sua madre lo è. Suo padre lo è stato.
Siamo tutti colpevoli, sussurra.
Anita gli sorride.
Non cercare di togliermi i sensi di colpa, lasciami almeno quelli.
Non era quello che voleva. Voleva soltanto dirle che lui ha ammazzato se stesso, per inerzia o soltanto per frustrazione. Non la guarda, abbassa gli occhi.
Non parlarne con Fabio. Lui non sa niente.

 

Vi lascio soli. Scendo a comprare il pane.
Il pane c’è. Un po’ indurito, un po’ masticato, ma c’è. Le serviva una scusa per uscire, per lasciarli soli, perché sembrassero meno estranei. Anita si chiude la porta alle spalle e scende veloce le scale.
Filippo resta da solo con lei. Ha ricominciato a truccarsi gli occhi di nero, ha ricominciato a strizzarsi le gambe e il culo nei suoi pantaloni aderenti. I capelli sono sciolti e scuri. La guarda e non sa cosa voglia, non sa perché abbia bussato a questa porta e abbia chiesto Mio fratello è in casa?. Tu neanche te ne accorgevi se ero in casa, voleva dirle. Ma ha taciuto. E ha iniziato a indagare il suo volto intatto. A guardarle il viso, i suoi occhi accerchiati, a cercare di ricordarsi di lei. A cercare di capire perché sia una estranea, nonostante abbiano lo stesso sangue.
Come mai sei qui?
Sabrina si fa strada da sola, cammina sicura, si siede sul divano più grande. Quello distante dalla finestra. Sono diversi anche in questo. Filippo non si siede mai lì.
Voglio parlarti della mamma.
Non sa immaginare cosa possa dirgli una che ha scoperto chi è la donna che l’ha cresciuta. Chi è la madre che l’ha messa al mondo. Sorride a un ricordo, però. Ripensa a quando Sabrina stava per nascere e lui ne era geloso. Guardava il ventre di sua madre e si chiedeva quanto spazio gli avrebbe tolto quella sorella sconosciuta. Quanti baci, quanti abbracci, quante notti insonni. Ha rubato più di quanto avesse dovuto. Non sorride più, abbassa lo sguardo. Mi hai rubato mia madre all’uscita da scuola, vorrebbe gridarle. Ma sarebbe come spingere una spada contro il vento. Finirebbe solo per disegnare l’aria, ma l’aria non porta il segno di chi la colpisce. Vale lo stesso con le persone come lei. Non si vince la gente a parole, è come rubare il vento al maestrale. Le persone si mettono in ginocchio con gli sputi, con la condanna delle cose che impari a togliergli. Con quello che impari a fargli mancare. Con le mancanze a cui si devono abituare. E Sabrina è troppo superficiale per lasciarsi vincere da una frase ben detta e ben confezionata. Ha troppo trucco per percepire uno sputo in faccia. È una donna, non serve rubare le sue bambole e ghigliottinarle. Lo faceva da piccolo. Ammazzava le sue bambole. Ma poi lei piangeva, correva dalla mamma e lui le rimetteva a posto. Quando ci si riempie le tasche di pentimenti repentini e poco convinti, si finisce per ammalarsi di se stessi. Si finisce per sentirsi incapaci, inetti. Si finisce per non riuscire più a guardarsi allo specchio senza vedere un uomo a metà. Metà umano, metà bambola uccisa. Metà bimba che piange. Si finisce per diventare piccoli. Si finisce per andare indietro con gli anni.
Dimmi.
Le manchi molto. La mamma sta soffrendo.
Poteva dirgli qualcos’altro, scomodare un’altra frase, una ruga sulla fronte, una lacrima in discesa. Sono venuta a dirti che la mamma sta bene, sorride tutto il giorno e spera che tu faccia un altro indicente. E che stavolta muoia. Sorride, Filippo. Immagina che sua sorella gli dica queste parole. Immagina le gambe accavallate di Sabrina, mentre gli dice che la loro mamma sposerà il suo amante. E che lui non è invitato.
Mi dispiace per lei.
Sai dire solo questo?
Cosa vorresti che dicessi?
Che vuoi tornare a casa, che vuoi parlarle.
Sorride di nuovo. E stavolta lascia che la bocca socchiusa faccia un ghigno.
Cos’hai da ridere?
Sabrina, sei troppo piccola.
Piccola per cosa?
Piccola per sentire il vomito alla gola, pensando di dover rimettere piede in quella casa.

 

Io so perdonare.
Sei migliore di me.
Non ho detto questo, Filippo.
L’ho detto io. Ti ha mandato lei?
No, è stata una mia decisione.
Filippo si alza. Si avvicina al tavolo, si versa dell’acqua. Non ha sete. Vuole solo bere su quelle parole, dimenticarle in fretta. Sta parlando con un’estranea, che improvvisamente si ricorda che sono fratelli. E lo ricorda soltanto perché sua madre non sa perdonarsi. O forse è solo stufa di starla a sentire. È solo un’egoista che vuole dividere a metà il peso di quei lamenti. Una che, l’eredità di quell’abbandono, vuole dividerla in due. Una che è qui per poter continuare a strizzarsi le cosce e le guance. Una superficiale.
Se sei venuta per riportarmi a casa, puoi anche andartene.
Ma possibile tu non abbia un cuore?
Si ferma. Stava tornando verso di lei, dopo aver bevuto qualche sorso d’acqua fredda e fastidiosa. La guarda negli occhi. Cosa credi di saperne tu?, è un grido, silenzioso e mortificante, che gli fa tremare le mani. Gli mortifica gli occhi e le gambe. Cosa può saperne una ragazzina conciata cosi. Cosa può saperne una che non gli ha mai rivolto la parola, se non per chiedergli se volesse il latte, a colazione. Cosa può saperne una che gli ha rubato il posto a tavola. Una che aveva una stanza vuota, mentre adesso non si vede più l’intonaco alle pareti. Vorrebbe strangolarla. Stringerle un bastone alla gola. Vorrebbe dirle che lei non sa niente. È una privilegiata, una che ha tante rughe quanti sono i suoi anni. Lui ha tante rughe e pochi anni. E pochi viaggi con gli amici. Pochi vestiti nell’armadio. Pochi giorni a raccogliere adesioni per lo sciopero degli studenti. Lui non è stato un leader, lei forse è la prima tra le stronze, la prima tra le puttane. La prima a perdere la verginità. La prima a conciarsi in questo modo.
Tu non mi conosci, non alza la voce.
Dico quello che vedo.
Le mani tremano più forte. E la voce non esce. Vattene se no t’ammazzo, e la guarda quasi a colpirla. Una così non muore nemmeno a sprangate. Una così non muore nemmeno a parole.
E cosa vedi?
Vedo uno che non sa provare sentimenti.
La testa gli scoppia. Lei è ferma, immobile, impassibile. Con le sue convinzioni e le sue frasi a fracassarlo. E lui è come un tiro al bersaglio, ogni colpo gli toglie un centimetro d’altezza e di vista. Non riesce a risponderle. Spera solo che se ne vada e lo lasci solo. Senza aggiungere altro. È colpa di tua madre se non so provare sentimenti. È colpa di tuo padre. È colpa di quella casa. È colpa vostra. È colpa tua, ma tace. Tace e si guarda le mani tremare. E le braccia irrigidirsi. Lui non sa provare sentimenti, è vero. Lui è arido, come un agosto qualunque. È il letto di un fiume che non conserva più l’acqua. È un ripostiglio senza ricordi. È quello che non ha scelto di essere. E lei non può capire. Lei può soltanto dire ciò che pensa di vedere.
Vattene, per favore.
Come vuoi tu. Ma pensa a quello che ti ho detto.
Sabrina gli passa accanto. Alta e bella. Dritta, senza una curva, senza un segno di stanchezza.
Tu sei come tua madre.
Mi basta non somigliare a te.

 

Com’è andata?
Non c’era niente che dovesse andare. Non c’era niente che potesse andare.
Però non mi guardi negli occhi.
Anita, ti prego.
Non mi guardi negli occhi perché volevi un altro finale.
Tu non sai niente. Tu non mi conosci.
Posso abbracciarti?
Filippo ora scosta lo sguardo e lo indirizza alla sua faccia. Vuole stringerlo, Anita. Ma Filippo non si lascia abbracciare da una vita. Da quando sapeva sorridere all’impulso di una felicità improvvisa. Da quando non gli tremavano le braccia. Non le risponde. Non saprebbe ricambiare un corpo che lo avvolge. Spera che lei si allontani, che cambi idea, che non lo guardi più. Che non lo guardi più così, con i suoi occhi che potrebbero costruire dighe alte per fiumi in piena. Non abbracciarmi, che saresti sola. Io sono di pietra. Io sono una cornice vuota. Sono un tronco, spera lei lo senta, mentre la implora di non avere braccia abbastanza lunghe per stringerlo a sé. Ma lei è sorda. Sorda di scuse. Persino di ripensamenti. Non ha parole. Non ha frasi da troncargli. Non ha vocabolari per sorprenderlo. Ha un corpo di latta, fragile e accartocciato. E braccia che vogliono sentire che ci si può capire. Ci si può sentire meno soli e meno infelici. Meno spaventati. Meno abbandonati. Lo stringe a sé. E lui ha le braccia abbassate, ferme. Lo stringe forte, per scambiarsi un respiro, un filo d’aria, una tregua dalla loro vita. Filippo stringe i pugni, per farsi forza. Per prendere esempio da lei, che ha braccia abbastanza lunghe per incorniciarlo, come fa l’orizzonte con il mare. Per fargli sentire un brivido alla schiena. Alza un po’ le sue, di braccia. Allarga i pugni. Poggia le sue mani sulle spalle di Anita, l’avvicina un po’. Le chiede scusa perché è arrugginito. Perché tutto questo non fa per lui. Ma la sta stringendo. Si stanno stringendo. Si guarda riflesso nel vetro della finestra. So farlo anch’io, si ripete. E s’accorge che anche i suoi denti, timidi, si sono concessi un sorriso impreparato. Sta sorridendo. E i loro corpi non lasciano passare l’aria. I loro corpi, stretti, sono un’ombra sola.

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