IO BASTO A ME STESSO – capitoli 19 – 20 – 21

definitiva1

 

 

Capitolo 19

 

Vuoi una tazza di caffè? L’ho appena fatto.
No. No, grazie.
Siediti.
No, vado di fretta.
Filippo si versa il suo, di caffè. Non le rivolge più lo sguardo, mescola lo zucchero con un cucchiaio d’acciaio. Vorrebbe chiederle se stia studiando, se si senta pronta. Non si è mai pronti per un esame. Vorrebbe raccontarle che ricorda bene quando ha fatto il suo. Ricorda come gli tremavano le gambe. Come si sono abbracciati all’uscita da scuola, lui e gli altri superstiti di quegli anni di rabbia e ragione. Ricorda quando si sono detti, a denti larghi, Noi qui non ci metteremo più piede. Con il volto fiero di chi sa cosa l’aspetti, con le pulsazioni irregolari di chi ha in mano le proprie ferite e il proprio futuro. Con i passi svelti e decisi di chi può concedersi un pianto disperato o un abbraccio inatteso. Erano tempi di illusioni e sorrisi temerari, come corsi d’acqua che straripano dal loro corso. Tempi di banchi anneriti e motociclette rumorose. Tempi d’altri mondi da cambiare e serietà distribuita a tozzi. Tempi che c’era ancora tempo. Vorrebbe dirle che è normale sentirsi così. Che è normale avere le gambe che tremano ma pronte, senza aver bisogno dirselo, a correre per chilometri, senza spigoli ai fianchi. Senza che nessuno possa mettersi in mezzo. Vorrebbe dirle che sarà più fortunata di lui. Che, un giorno o l’altro, si sveglierà e capirà che gli esami finiscono solo perché ne inizino altri. Che la vita s’impara a spicchi di lucide domande. A risposte da condire e mostrare con fierezza. A incubi notturni. A serate a scombinarsi i capelli e i progetti. Che la vita non s’impara mai abbastanza. Magari invecchierai come me. Magari c’incontreremo più vecchi e più stanchi, vorrebbe dirglielo. È una speranza. O una paura. La guarda, adesso. È sua sorella. Quasi si sorprende di aver pensato di sprecare parole per lei. Di sprecare ricordi rubati a una soffitta d’intenti traditi. Di sprecare parole che sanno di nuovo, che puzzano come automobili appena comprate. Come macchine non ancora accartocciate in un muro imprevisto, quello della distrazione, della rabbia senza soluzione. Un muro indecente, che ti ricorda che erano tempi che si poteva immaginare tutto, ma non ogni cosa. Ma non che la vita possa avere più fantasia di chi la abita. Dei peccatori. Delle nonne. Degli scienziati o dei pedoni distratti. Ecco cosa potrebbe dirle La vita a volte ha più fantasia di noi. E sperare che lei capisca. Che si entusiasmi e che abbassi il volto. Che si metta a sedere. Che abbia voglia di farsi sporcare la pelle da parole sconosciute. O di dire qualcosa, di aprire la bocca, di non avere fretta.
Sabrina, mi metti ansia. Siediti.
Non mi hai ancora risposto.
Non so se sono pronto.
Questo lo so.
Non so se arriverà mai il giorno in cui sarò pronto.

 

Resta con le spalle al muro e le gambe incrociate. Guarda suo fratello, che ricordava sbarbato e logorroico. Lo osserva mentre avvicina la sua tazza di caffè alla bocca, mentre lo beve lentamente, socchiudendo gli occhi. Sorride a una goccia che si posa sulla sua barba.
Perché mi guardi?
Ti sei sporcato.
e Filippo si toglie quella bevanda scura dalla faccia, lo fa con il suo palmo aperto. Con noncuranza. Smette di sorridere, Sabrina. E lui si alza per accumulare un’altra tazza sporca. Per maledirsi, stasera, quando tornerà a casa e la ritroverà, insieme alle altre, poggiata alla rinfusa nel suo lavello. E rimanderà ancora. Si ripeterà Domattina pulisco tutto, ma tradirà di nuovo la sua promessa. O forse stasera no. Stasera avrà altro a cui pensare, avrà un ricordo da tradire o un affetto da offendere. Oggi è il compleanno della mamma, gli ha detto Sabrina. Lo ricordo, le ha risposto. Sono venuta qui per chiederti di esserci. E lui ha taciuto. Ha preso la moca, l’ha riempita di caffè e ha aspettato che salisse. In silenzio. Sperando che lei dicesse qualcosa. Che cercasse di convincerlo o che ridesse di lui, Scusa, ho sbagliato. Non volevo venire qui, tu non sei invitato. Ma è rimasta a pochi metri, a dondolare le sue gambe e i suoi capelli colorati. A mimetizzarsi con il muro e i pensieri di uno sconosciuto. Non sa se abbia voglia di tornare in quella casa. Di andare da sua madre, di stringerle le spalle e dirle Buon compleanno. O chiederle come le va la vita, se i fiori piantati in terrazza ci sono ancora, se la sua camera è ancora un monumento alla sua memoria. Se è rimasta intatta. Non ha voglia di esserci. Di tornarci. Di ricordare quando l’hanno riportato lì a raccogliersi le ossa. Come un mendicante senza sacchi sulle spalle e senza voce. Gli hanno detto Questa è la casa dove sei cresciuto, la ricordi? e lui ha taciuto anche allora. È rimasto zitto ed esasperato. Ha chiuso gli occhi e le orecchie. Io non ricordo. E ora ricorda bene. Ricorda la mimosa che colorava di giallo il tappetto marrone, davanti alla porta. Ricorda che era piccolo e non riusciva ad aprirla, non ci arrivava, si affannava e s’arrampicava su una sedia di fortuna. Ora ricorda il vomito alla gola. Il vomito delle ultime volte. Di quando è corso via e ha scoperto sua madre con un altro. Il vomito di quando è uscito e ha promesso a se stesso che non ci avrebbe messo più piede. Con la bocca stretta e le mani a trattenere una valigia vuota e una giacca per la pioggia. Chi ci sarà?, Nessuno, Nessuno?, Io, la mamma e tu, se verrai. Si chiede cosa potranno dirsi. Cosa sapranno raccontarsi. Cosa ci sia da inventarsi davanti a un tavolo di affamati e una tovaglia senza briciole. Faccio il barista e la sera mi raccolgo a pezzi, le dirà così, forse. Dirà così a sua madre. E lei si sentirà ancora responsabile di tutti i gelati che suo figlio non ha divorato. Di tutte le estati afose e avvilenti che ha perso. Delle macchine che non ha guidato, a fari spenti, per sfidare la vita e il suo destino imprevisto. E finiranno per sorridere per l’arrosto troppo piccante o per il gatto che miagola sulla porta. Finiranno per fingersi spettatori di un destino a cui hanno smesso di credere. Filippo si chiede che senso abbia esserci, senza portarsi dietro le cicatrici e le unghie masticate per noia o per frustrazione. Che senso abbia esserci a metà. Si chiede che senso abbia non ferirsi più. Non nascondere più gli occhi asciutti e stanchi, i cespugli di capelli e la barba arruffata. Non verrò, perché non sappiamo più ferirci, vorrebbe dirle. E vorrebbe odiare questa sorella sconosciuta, per la sua aria annoiata e per i suoi capelli colorati. Vorrebbe odiare il fatto che siano cresciuti senza mai conoscersi. Senza mai strapparsi gli spazi come coriandoli in cui affogare. In cui affogare i pomeriggi di abitudine e silenzio. Quei pomeriggi che lei ha avuto la casa tutta per sé, che ha smesso di voltarsi davanti alla sua porta, che ha smesso di chiedersi Chissà se mio fratello tornerà mai a casa. Vorrebbe odiarla per quelle gambe incrociate e supponenti. Per questo invito. Per aver pensato a lui. Per non aver accettato il suo caffè. È buono, ma non gliel’ha detto.
Cosa sai tu di me?
Non ricominciare, Filippo.
Non voglio litigare. Voglio sapere cosa sai tu di me.
Ho fatto preparare una torta al cioccolato, per stasera.

 

Cos’hai pensato in quel momento?
Che sarei scappata via. Non sono abituata a farlo, ma bisogna anche costringersi a cambiare, a volte.
Ma sei rimasta.
Secondo te, perché?
Perché tu sei forte, nonna. Perché hai avuto coraggio.
Io non sono forte e non ho mai avuto coraggio.
Ma hai scelto di restare.
Sono rimasta per i miei figli. Per non sentirmi dire di essere stata una vigliacca.
Non saresti stata una vigliacca.
Lo capirai quando sarai padre. Quando ti diranno che è più facile partire che abituarsi a restare.

 

Forse adesso ha le gambe stanche di chi ha aspettato una parola che non è arrivata. O forse ci spera ancora, mentre cammina verso la porta e si trascina dietro una borsa pesante, di trucchi e cellulari impazziti.
La mamma non sa che sono qui. Ho preferito non dirglielo, nel caso poi tu non venissi.
Hai fatto bene.
La guarda uscire e chiudersi la porta alle spalle. Quel rumore lo infastidisce. Da sempre, sin da quando conosceva ancora pochi rumori e pochi addii. Poche maniglie lasciate andare con arroganza. Da piccolo faceva un sussulto, si teneva le braccia. Si guardava intorno. Era solo qualcuno che era uscito. Ma era sempre una persona in meno da contare a tavola. Una persona a cui togliere le posate e il bicchiere. La sedia e la pasta scotta. Forse era piccolo come Gaia. Sorrideva ai grandi e si specchiava nei loro occhi infelici. Sapeva distinguere le grida dalle parole dette ad alta voce. Sapeva distinguere le porte sbattute da quelle abbandonate al primo vento dell’estate. Forse per questo ora vorrebbe andare da lei e urlarle di non farlo più. Di tornare indietro. Di andarsene senza far niente, accennando un Ciao con la mano e nient’altro. Vorrebbe dirle che non sa troppe cose di lui. Non sa quando lo stomaco inizia a balbettare le paure che si porta dentro sin da piccolo. Non conosce le pareti marce che gli spengono l’entusiasmo e la fretta. Forse loro due sono troppo simili per scontrarsi nello stesso perimetro. Forse anche lei sente un formicolio allo stomaco, a volte. Forse anche lei ha cose che lui non sa. Forse si strucca e odia i suoi occhi piccoli e indifesi. Forse odia le pareti della sua stanza, coperte d’artifici per non lasciarsi tradire dal tempo perso e da quello abbandonato. Le foto ingiallite. Le sere che ha passato a fare l’amore per noia o abitudine. Per non essere diversa. Ci pensa e si siede sul pavimento dove lei ha camminato e si è chiusa il suo mondo alle spalle. Magari anche lei, ogni sera, scrive un diario. Poi strappa le pagine, forse. Oppure è fiera. E lo rilegge per correggerne i puntini sulle i e le parole dimenticate per intolleranza o vergogna. Fammi leggere il tuo diario che io ti mostro il mio, vorrebbe dirle, E io ti perdono tutte le pagine che ti ho dedicato.

 

Gaia è straordinaria.
Hai seguito tutta la recita?
Si, ero dietro. Ero in disparte.
Hai deciso che quello sarà il tuo posto?
Io ho scelto di esserci.
Non basta, Filippo. Non basta esserci. Bisogna decidere che posto occupare.
Tu quale hai scelto?
Io ce l’ho già. Io ho già il mio posto.
Anita, io vivrò là dove mi mancherete sempre.
Allora hai fatto anche tu la tua scelta.

 

Sta camminando già da un po’. In mezzo a gente sconosciuta. In mezzo a gente intatta e distratta. In mezzo a gambe già abbronzate dal primo sole pallido. E la temperatura si alza nei petti di chi si stropiccia le camicie e la fronte. Cammina senza meta. O sa bene dove andrà. Andrà da sua madre per ribadirle che dall’amore non ci si salva mai. Le dirà che non ha nulla da perdonarle. Che ognuno deve imparare a perdonare se stesso. Che ci si basta finché si ha fiato in gola e un letto sfatto per annegare le notti. Ma poi si ha bisogno di essere in due. E lui l’ha imparato solo adesso. Solo adesso che cammina e fa caldo. Adesso si ripete che ci si basta finché non si conosce chi ha gli stessi peccati scritti a caratteri cubitali sulle guance. Sulle mani. Nei polmoni neri di chi si stringe per non vedersi andare via. E forse ora riesce a comprendere quello che sua madre ha capito prima di lui. L’ha capito quando Ugo leggeva il suo giornale e comprava il burro che tutti dimenticavano. E il latte da buttare via, scaduto e verde. Ora comprende le parole della sua mamma, di quella cavernicola dagli occhi neri. L’ho amato. Ma ho scelto di togliermelo per punirmi. L’ha odiata per questa frase. E non capiva come fosse possibile punirsi senza spararsi un proiettile in gola. Ha riso dentro di sé. Ha deriso quella mamma ridicola. Le sue giustificazioni ridicole. Le pieghe scavate nella pelle e i suoi riccioli arruffati. Le notti che si è tolta. Il figlio che ha ucciso. L’altro che si è scorticata dallo stomaco. E l’uomo che l’ha implorata di riattaccarsi i denti e il seno. Ha riso di lei. Perché la trovava codarda. Una madre che non muore al posto del figlio, è una vigliacca. Non è una madre, se lo ripeteva tutte le notti. Lo scriveva tra le pagine di un diario di arretrati. Lo scriveva nelle magliette e nei piatti riscaldati. L’ha odiata. Ma ora comprende quelle labbra minuscole e viola. Forse sceglierà di essere come lei. Di punirsi come lei. Di non pretendere il posto che vuole. E si incolperà soltanto di essere suo figlio, di aver ereditato i suoi errori, non di essere una candela ridotta all’osso. Non di essere un vaso di calcare e acqua asciutta. Forse le chiederà se nel frattempo si sia perdonata o se si punisca ancora, la notte. Se si picchia il volto. Se si frusta le mani. Perdonati tu, perdonati finché sei in tempo. Perdonati quello che ti sei tolta. Non implorarmi. Non metterti in ginocchio. Non fracassarti la pelle. Chiediti scusa, forse glielo sussurrerà al posto di un patetico Buon compleanno. Che cinquant’anni vengono una volta nella vita, ma i battiti accelerati sono un lusso che tocca a pochi poter vivere. Questo vuole regalarle. Di guardarsi allo specchio e sentirsi leggera. Sentirsi una crepa che si ricompone. Un lampione dritto. Un pesce al forno rigettato in mare. Vuole regalarle delle mani calde. Dei piedi nuovi. E, se lei non capirà, glielo griderà a pieni polmoni Ho imparato a non odiare chi ha scelto di amare.

 

Posso entrare?
Certo. Ti aspettavo.
La mamma?
Tornerà tra qualche minuto. Sarà felice di trovarti qui. Sono felice tu sia a casa.
Sabrina fa strada come se lui quel posto non lo conoscesse. Vorrebbe dirglielo. Vorrebbe dirle che lui è cresciuto lì. E che ora gli si stringe un nodo in gola e il respiro s’assottiglia. L’ultima volta le ha lasciate rannicchiate sulle scale. L’ultima volta ha detto che non ci sarebbe più tornato. E ora è tutto come allora. Come qualche mese fa. Come qualche anno fa. Come quando la vita finiva tra gli scalini, da salire a due a due, e il profumo di verdure che ha imparato a mangiare. E Cecilia cercava di convincerlo a non masticarle troppo, a mandarle giù velocemente, senza pensarci. Sono come le medicine, hanno un sapore aspro, ma fanno bene, gli diceva. E lui non capiva perché fosse così importate mangiarle Una volta a settimana, così ripeteva lei. Chissà se le prepara ancora. Chissà se il venerdì è il giorno degli spinaci. Delle lenticchie bollite e profumate. Delle zuppe di sedano e cipolla. Chissà se d’estate fa ancora caldo in camera. Chissà se si accende ancora il televisore, mentre si mangia. Chissà se Sabrina cambia canale se c’è il telegiornale che annuncia un’altra tragedia. Chissà se si ricordano ancora di alzare lo sguardo quando la luce si affievolisce e la tavola si colora di blu scuro. È nella casa dove suo padre sgranocchiava i pistacchi della nonna. E sua sorella non sapeva aprirli. Ugo le sorrideva, le diceva Sei troppo piccola, non hai la mia forza. Si chiede se suo padre amasse ancora sua madre. Se avesse capito che lei aveva iniziato ad abituarsi a sentirsi il cuore in bocca, la gola asciutta e le mani sudate. Magari qualche volta facevano l’amore e lei pensava all’uomo che amava. All’uomo che si è tolta, come una spina dalla faccia. Si chiede cosa avrebbe regalato a sua moglie, se fosse qui adesso. Magari delle rose, una cena a lume di candela. O una gazzetta sportiva. Oppure un sorriso sincero di chi ha scelto di non cambiare mai. Il sorriso di un uomo che ha pianto e riso poco. Che forse doveva imparare a bastarsi da solo, prima che scegliere di bastarsi in due.

 

Sabrina sistema le posate. Il tavolo è sempre lo stesso, ma stasera è apparecchiato per metà. I tovaglioli di stoffa, di un colore acceso. Le posate d’acciaio. I bicchieri di vetro fine e brillante. Un piccolo vaso con un po’ di fiori. Li ho presi in terrazza, ha sottolineato lei, senza che nessuno glielo abbia chiesto.
Quando ti sei innamorata per la prima volta?
Si ferma, in bilico tra una posata dritta e l’altra che rimane curva e dispettosa. Cerca gli occhi del fratello e la risposta a quel silenzio interrotto. A tutti i silenzi mai rotti. A questa curiosità di un estraneo. Alle sue parole, che forse saranno un po’ appiccicate e ruvide.
Forse troppo presto, e torna a sistemare quella forchetta caduta male.
C’è un tempo giusto?
No. Il tempo non c’entra. C’entrano le persone.
La nonna mi diceva sempre che chi dimentica l’amore, dimentica se stesso, sorride, si stropiccia i capelli.
L’ha detto anche a me una volta, ricambia quel sorriso e le fosse sulle guance, Ma forse ero troppo piccola per impararlo.

 

L’amore è una cosa bella.
Io non m’innamorerò mai più.
Sei troppo piccola, Sabrina. Sei troppo piccola per dirlo.
Dico davvero.
Cambierai idea presto. Cambierai idea mille volte. Mi darai ragione. Forse mi maledirai.
Perché dovrei?
Perché ho la pretesa di volerti insegnare che chi dimentica l’amore, dimentica se stesso.
Chi dimentica l’amore forse salva se stesso.
No. Hai mai visto un pagliaccio dimenticare di dover far sorridere la gente e continuare ad essere allegro?

 

È geloso della sua nonna, che gli aveva promesso di essere speciale soltanto per lui. Tua sorella è furba, gli diceva. E sorrideva mentre glielo spifferava all’orecchio. Si rannicchiava. Vorrebbe chiederle perché ha detto a Sabrina quello che aveva detto a lui. Quello che gli aveva confidato. Quello che aveva preteso di insegnargli. Sorride, mentre sua sorella accoglie un giovane con un cartoncino rosa.
È la torta. Tieni, mettila in frigo.
L’afferra e si muove a fatica. Forse lui e Sabrina non sono così diversi. Forse hanno imparato entrambi a raccontarsi in un diario d’emergenza. Un diario di parole dette per intero. Dette senza temere di non comprendere gli spazi lasciati bianchi e gli scarabocchi ai bordi, per far scendere l’inchiostro e continuare a scrivere.

 

Dev’essere la mamma. Ho sentito il rumore della sua macchina. Ho imparato a riconoscerlo.
Gli sorride. Lui si alza d’istinto. Come a volersi sistemare le asole della camicia e il volto. Come a voler essere presentabile. Come a non volerla spaventare. Gli tremano le mani. Ma di un tremore nuovo. Terrà la schiena dritta e la faccia alzata. Le guarderà le labbra. Le guarderà i capelli. Spera che siano gonfi e ingombranti. Che le sorridano gli occhi. Che le sorridano i tacchi bassi e la gonna lunga fino al ginocchio.
Sabri, sono qui!, alza la voce, spera che sua figlia la senta. Che si ricordi che oggi è un anno più vecchia e più segnata. Più coperta di rughe e denti ingialliti.
Filippo decide di camminare verso di lei. Di aprirsi la porta davanti agli occhi e di dire che c’è anche lui. C’è stasera. C’è per cena. C’è tra quelle tende chiare e pulite, tra le foto incorniciate e risparmiante al terremoto dei sentimenti ammuffiti. C’è per un giorno ancora o per sempre. E non vuole chiederselo stasera. Non tra un’ora. Non quando annegherà la bocca e il naso nella cioccolata. Come da bambino, come quando correva giù dalle scale e si leccava le dita e le labbra. Ma restava sporco e sua madre gli faceva un segno lieve, quello che solo loro sapevano capire. Aveva imparato a riconoscerlo. A non dimenticarlo mai. A non distrarsi. Aveva imparato a non attaccarsi alla ringhiera di legno scuro. Sorridevano. Avevano imparato a prendersi in giro, a sfogliarsi come pagine di settimanali colorati. A toccarsi le spalle e a farsi coraggio. A non farsi mancare.
Non posso prometterti che sarà per sempre.
Mi basta che tu ci sia ora.
Buon compleanno, mamma.
Bentornato.

 

Capitolo 20

 

 Diario di Filippo

 

Posso salire di sopra?
Certo. Questa è casa tua.
Vorrei portare con me un vecchio disco di De André.
Mi sono sorpreso quando ho scoperto di ricordare ancora dove fosse. Quando ho scoperto di non averlo mai dimenticato. Quando ho iniziato a salire gli scalini saltandone uno per ogni gradino fatto. Quando ho aperto la porta della mia stanza e ho sentito quell’odore che c’era allora. Era l’odore di noi giovani, di noi scaraventati su letti di combattimento, di noi generazione di sconvolti. L’ho preso e ho scelto di uscire subito. Ho spento la luce e non ho guardato quello che mi lasciavo alle spalle. Perché ho avuto paura. Ho temuto di voltarmi e di avere la gola soffocata e la nausea negli occhi. Ho avuto paura di non volerci entrare più. Ho fotografato le nostre risate. Ho fotografato mia madre che lasciava sul mio letto i maglioni puliti e profumati. E poi usciva, lasciando ogni volta la porta aperta. E io le gridavo Non imparerai mai, devi richiuderla, quando esci!. Ho fotografato quel poster gigante, la mia adolescenza rottamata, persino la mia infanzia. Ho fotografato quanto di bello abbia scelto di vedere. E la ricorderò cosi. Come se fosse ancora la mia mia storia. E farò suonare questo disco ogni volta che dimenticherò il profumo della mimosa davanti casa. Della torta al cioccolato. O del mio letto un po’ scomodo e un po’ invecchiato.

 

Quando mi ha chiesto di salutarci per l’ultima volta, ho fatto finta di non sentire. Mi sono tappato le orecchie su quel “per l’ultima volta”. Forse non me l’aspettavo. O forse ho provato soltanto rabbia. Per il suo tono. Per la sua faccia, che ho immaginato. Per la sua cicatrice ricoperta di trucco e di orgoglio. Per il biglietto di un aereo. Per un biglietto di sola andata. Per un biglietto di coraggio. Di vigliaccheria sepolta, di nuove scuse, di vecchie attenuanti, di pelli colorate e martoriate. Ho provato rabbia perché ci siamo detti che fosse un addio. E, mentre lo dicevamo, sentivo che sorrideva. Sentivo che era felice di andare via da me. Dai giorni ad aspettarmi, seduta su una sedia scomoda. Dai giorni a parlarmi. A farmi ascoltare la musica di De André. A inventarsi un sogno che andasse bene a tutt’e due, che corrispondesse la sua insaziabile voglia di vivere. E di vedermi vivo. Le ho sorriso anch’io, però, quando mi ha detto Magari ci rincontreremo più grandi e più risolti. È meglio di no, volevo dirle. Volevo dirle che tornare indietro non serve. Che vivere per aspettarsi è da malati. E io sono guarito. Le ho detto piuttosto di essere felice. E Viviana mi ha risposto che ci proverà. Potevo dirle qualcos’altro. Potevo dirle tante altre cose. Ma non volevo che fosse un telefono ad accogliere il mio coraggio tardivo. O il suo. E sapevo che da lì a poco ci saremmo visti per salutarci, magari con un abbraccio e una lacrima trattenuta. Si piange sempre per chi se ne va. Per chi ha deciso di ritagliarsi e attaccarsi le dita e il destino in un posto nuovo. Si piange per lasciarsi un po’ più disfatti e sconnessi. Per ricordarsi con gli occhi gonfi e le parole goffe e solitarie dell’abbandono. Parole mai dette. Ma sperate. Ho immaginato di picchiarla e stringerla forte. Per il coraggio. Per il suo coraggio. Per aver scelto di salvare bambini scavati nello stomaco e nelle ossa. Per aver scelto di non salvarmi più.

 

Quindi non vedi tua sorella da cinquant’anni?
Proprio così.
Ma perché è andata via?
Altri tempi, tesoro. Tempi di fame, di bombe sulle nostre teste.
Ma l’America è lontana.
Lo so. Ma se n’è andata e io sono stata orgogliosa di lei. Potevo andarmene anch’io, ma non era il mio posto.
E non l’hai più sentita nemmeno per telefono?
Si, qualche volta.
In così tanti anni, solo qualche volta?
Era appena ventenne quando è partita. Era giovane e pulita. Poi ho smesso di telefonarle.
Perché?
Perché la sua voce è cambiata. È diventata la voce di una che non riconoscevo più. Era la voce di una donna che non conoscevo. E io, di estranei, ne ho sempre fatto a meno.

 

Viviana mi è venuta incontro. Mi ha sorriso e io ho ricambiato. Senza pensarci. Ho scelto di incontrarci per strada, in mezzo alla gente che urlava e si spingeva, in mezzo a gente distratta, appena uscita da una metropolitana affollata. Volevo che fosse un addio diverso. Di quelli che sai che non ti rivedrai mai più, ma scegli di sorridere per non pensarci. Ho preferito non venisse a casa mia, tra le pareti bianche e le caffettiere ancora sporche. Tra i disegni stropicciati di Gaia. Non mi andava di spiegarle che quella bimba mi ha insegnato a sorridere. Non mi andava di dirle che mi sono tolto la ruggine di dosso imparando a parlare a una bambina, che non aveva la pretesa di insegnarmi nulla, ma che mi ha insegnato a stare al mondo. A cercarmi un posto nel mondo, a cercarmi nel mondo. E a trovarmi, o ritrovarmi, a un passo da me. Volevo che fossimo da soli. Al massimo con estranei, ma non nella mia casa, che profuma di me e Anita. E del bacio che le ho dato, dopo averla rincorsa. E di tutte le cose che ci siamo detti e che mai toglierò dalla mia mente e dalla mia giacca. Dalle tasche con le monete rosse e sporche. Ti trovo bene, mi ha detto. E io ho annuito. Ché risponderle significava aggiungere parole a parole già concluse. A una frase conclusa. A una frase interrotta dal suo sorriso e dal mio. Ho capito che la vita prende la direzione di chi siamo diventati solo se glielo permettiamo. La vita è fatta per baciarsi, per mischiarsi gli aliti di gente scampata alle guerre intestine, ai silenzi, alle assenze. La vita è imparare ad appartenersi. La vita è imparare a toccarsi le zone d’ombra, è risanarsi i vuoti come i battiti del cuore. La vita è imparare a farsi fotografare la rabbia, senza scappare. È lasciarsi fotografare i segni della pelle che racconta quanti giorni siano passati dall’ultima volta che sono stato vivo.

 

L’Africa non è poi così lontana.
Non ti prometto che verrò a trovarti.
Non te l’avrei chiesto.
Lo so. Forse sono stato io a chiedere troppo. Senza accorgermene, l’ho fatto.
Filippo, non parliamo più del nostro passato. Non tocchiamolo più.
Tu hai sofferto per me.
È stata una mia scelta. E sono contenta sia andata così.
Mi ricorderai con un sorriso?
Ti ricorderò con questo sorriso che hai ora. Con questo sorriso che appartiene a una donna che non sono io.

 

Ho scelto di abbracciarla. Come fosse un regalo. Come fosse un miracolo da concedere all’uomo che sono diventato. In quel momento avrei voluto dirle altre cose. Avrei voluto sfogliare altri ricordi, altre stonature, altre albe appese a un soffitto di felicità irriverente. Ma poi, mi sono chiesto, a che serve ritagliare un istante di nostalgia, per noi che ci siamo sabotati i baci come le confidenze? Sono rimasto zitto. Ci siamo guardati un po’. Forse ci siamo anche annoiati, ci serviva. Ci serviva riconoscerci nelle nostre zone violate. Nelle cicatrici con cui ho fatto a pungi, nelle magliette larghe e sudate. Ho voluto che il nostro saluto fosse in movimento. Tra gli alberi in festa. Tra l’erba alta. Tra le folate di vento che ci promettevano un’estate insolita. Quella che è arrivata. L’estate della mia vita. Abbiamo camminato a lungo, senza stancarci. Senza farci del male. Abbiamo imparato. Si impara tutto. Si impara ogni cosa. Basta guardare le ginocchia che tremano e le orecchie arrossate da discorsi compiuti. Le ho detto di guardare il panorama. Di salutarci tra il rumore dei clacson e le coppie attorcigliate ai loro baci. Ha accettato.

 

Mi mancherai. Già lo so.
Anche tu, Viviana.
Impara ad essere felice.
S’impara ad essere felici?
Forse si. Forse no. Forse bisogna imparare ad accorgersene. A riconoscerla, la felicità, ha chiuso gli occhi per un attimo. Sapevo avrebbe pianto. L’ho detto. Si piange sempre quando ci si dice addio. Si piange sempre quando qualcosa resta da dire. Sono rimasto in silenzio. Ho preferito allungare la mano e allontanare quella lacrima testarda dal suo volto.
Grazie per aver fatto un pezzo di strada con me, le ho detto.
Mi ha guardato. Si è strofinata gli occhi. Forse voleva dirmi qualcosa. Ma non si improvvisano le parole importati. Si masticano un po’. E, se non sono buone, si gettano via. Come resti di vita. Come i resti di quello che abbiamo conservato. Come i nostri sorrisi malconci ma ancora intatti.
Nessuno basta a se stesso realmente, le ho detto. Ci siamo salutati così.

 

Capitolo 21

 

Sta preparando il suo ultimo caffè di oggi. Poi si rimetterà addosso i suoi vestiti e i suoi pensieri. E uscirà. È un mercoledì di caldo afoso, di gelati sciolti tra le dita, di spiagge affollate. Di gente che scappa dai semafori verdi. Di promesse da mantenere. Fabio lo aspetta fuori, con una valigia in mano. Sto per partire, gli ha detto. E Filippo non gli ha creduto. Sembra sia vuoto, il suo bagaglio scuro. Sembra che gli serva a raccontarsi una bugia. O a non dirsi bugiardo. A convincersi che stia andando via. Forse è per chiedersi scusa, per trovare un rimedio al tempo tradito o per tradirlo di nuovo. Per dirsi A presto. Per dirsi quello che non hanno avuto il coraggio di dirsi prima. Gli addii servono anche a questo. A non temere di doversi rivedere domani e doverne riparlare. Servono a stringere i pugni e a farsi coraggio. I saluti servono ad aggiustarsi le ossa, rotte dai discorsi trattenuti a forza. E si finisce per sentirsi più puliti e più scoperti. Più nudi. E ora Filippo si chiede se quella di Fabio non sia codardia. Oppure tenacia. La tenacia di un uomo che si ridisegna altrove. Tra nuove birre e nuove donne. Sta fumando una sigaretta, poco distante dall’entrata del bar. E forse sarà l’ultima di questa città, di questa vita raccattata, di tutti giorni incollati a quelli passati e a quelli a venire. Delle sere a fare tardi. Delle promesse di non rifarlo più. L’ultima di questa storia danneggiata ai bordi e nell’intestino. Ora finirà il suo turno. Lo raggiungerà. E magari gli dirà di restare ché scappare non serve a niente. Resta. Resta per tua figlia. Non pensare solo a te stesso. Pensa a quando lei odierà il tuo nome e il tuo posto vuoto a tavola. Pensa a quando strapperà le tue foto, il divano, le bambole che gli hai regalato tu. Pensa al suo nome. Al tuo ennesimo errore. Pensa a quando sarà adulta e le chiederai scusa. A quando capirai di doverle chiedere scusa. Resta per non essere il suo rimpianto. Resta per non essere un ricordo. Resta per non scolorire le sue guance. Oppure non gli dirà niente. Non è questo il suo compito. Lui non ha figli. Ora saluterà i suoi colleghi e andrà da lui. Gli dirà Non fare scherzi, non tornare più. Che poi ti toccherà chiedere scusa per essere di nuovo qui.

 

Quanto starai via?
Non lo so. Forse un mese o forse per sempre.
Non hai le palle per non tornare più.
Piuttosto non le ho per restare, sorride, Ma questa non è la vita che voglio, torna serio.
Camminano coordinati e attenti. Come da piccoli. Come quando non toccavano i bordi e le fessure dei marciapiedi. Come quando giuravano di capirsi. Ed erano soltanto incompleti, come chi, della vita, conosce soltanto l’abisso prima della risalita. O la salita prima dell’abisso. Non restavano mai in silenzio. Non lasciavano risate intoccate. Quelli erano i tempi delle tifoserie impazzite. Dei libri sepolti sotto giornaletti sconci e sorprendenti. Sotto donne nude e provocanti. Già da allora si intuivano diversi, ma si chiedevano scusa. Perché sapevano farlo. O non serviva ancora farlo. Erano i giorni dei primi baci appuntati in un quaderno. Che ci si vantava delle lingue che sapevano aggrovigliarsi ad altri destini puntuali. E ora sono più alti e più spettinati. Come i loro capelli. Come il cielo. Come i cassonetti dell’immondizia. Si guardano, a volte, restano zitti e si ripetono Stavi per dirmi qualcosa, non è così?, No, niente. E tornano a fare attenzione al marciapiede, alle macchine rosse, a quelle scolorite e alle anziane con gli ombrelli colorati per ripararsi dal sole.
Sei sicuro di voler andare via?
Si.
Non pensi a quello che lasci qui?
Io basto a me stesso, lo guarda, Perché sorridi?
No, così.

 

Cercare di spiegargli che si sbaglia, non è cosa facile. Ne è convinto. E resterà zitto. Certe cose si comprendono solo dopo aver concesso loro sangue e rabbia, notti insonni e arroganza, persino un po’ di frustrazione e un atto incoerente di disinteresse. Per certe cose non servono manuali d’istruzione. Adesso potrebbe dirgli Non è come dici tu. E com’è?, potrebbe chiedergli Fabio. E finirebbe per balbettare discorsi di dubbio senso. E di dubbia utilità. Certe cose graffiano la pelle e le mani. E, a spiegarle, si finisce per guardarsi come alieni. Come diversi. Non gli spiegherà perché nessuno basta a se stesso. Del resto, lui l’ha imparato da Anita. Da Gaia. Da quella gente che Fabio ha scelto di mettere in una cornice, in un garage di fortuna dove passerà le notti. Ma forse non è colpa sua. Non ha nulla da rimproverarsi se non ha imparato la lezione. Bisogna essere marchiati dallo stesso peccato, per non vergognarsi più delle proprie mani che tremano. E ammalarsi è fortuna di pochi. È fortuna di chi ha scelto di non perdonarsi per troppo tempo. Che poi ci si guarda e ci si chiede se ne sia valsa la pena. Ora, forse, Filippo risponderebbe di sì. Le esperienze insegnano dopo averti messo con le spalle al muro, non prima. Prima ci si guarda come pazzi. E ci si parla a bassa voce. E ci si risponde No, non è valsa la pena. Ma l’unica colpa del senno di poi è che arriva poi. Ma arriva. Presto o tardi, arriva a salvarci. O a farsi maledire.

 

Ti sei mai chiesa come sarebbe stata la tua vita se Carlo non fosse morto?
Tutti i giorni.
E che risposta ti sei data?
Mi sono detta che la vita ha più fantasia di noi.
Forse è meglio non parlarne più.
No, Filippo. Mi piace parlare di lui. Mi piace raccontarti di lui.
Ma non voglio che soffri ancora.
Io ho sofferto già. Ho sofferto quando piangevo di nascosto, quando a tavola trattenevo i singhiozzi, quando nessuno s’accorgeva che avrei voluto morire con lui.
Perché non ne hai mai parlato con nessuno?
Perché non avrebbero capito. Mi avrebbero giudicata.
Io non ti giudico, nonna. Ti voglio bene.
Tu diventerai un uomo di cui andrò fiera. Non tradirti mai, Filippo.

 

E non credere che io sia un egoista.
Non dirmi che lo fai per tua moglie e tua figlia.
Lo faccio per dimostrare che ho imparato qualcosa.
E cosa avresti imparato?
Stavolta è Fabio a non aggiungere una parola. È lui a guardarsi le scarpe e la valigia. Ma non i discorsi da fare. Filippo attende un po’, impaziente. O forse rassegnato. Tutto ha un senso e il loro è quello di fermarsi qui. Di non rispondere alle domande fuori tempo. Non sono più simmetrici nei movimenti. A intervalli regolari, uno supera l’altro e poi si scambiano i ruoli. Si guardano i pantaloni e le braccia. Il sudore e i loro capelli. Magari ci rivedremo quando saranno tutti bianchi, ha detto Fabio. Rideva. Ma non ci credeva nemmeno lui. Non crede al fatto che invecchierà, che i suoi muscoli cederanno al tempo, che le donne smetteranno di guardarlo come fanno adesso. L’ha detto per sorridere. Non per crederci. Che poi non sempre serve. L’ha detto per riempire l’imbarazzo del silenzio. O magari quando non ne avremo più e saremo stempiati, ma questa risposta di Filippo non deve essergli piaciuta molto. Ha mostrato solo qualche dente e ha riabbassato la testa. E Filippo ci ha creduto davvero. Crede al tempo che passa, alla pancia che diventa tonda e stanca. Alle serate a guardare la luna e a stringersi le mani. Crede al tempo che se ne va senza chiedere scusa.
Cerca almeno tu di renderle felici.
…poi dici di non essere un egoista, sorride sarcastico, Filippo.
No. Non è egoismo.
Cos’è allora?
Te lo si legge negli occhi che la ami. Che ami quelle due piccole donne.

 

Lo guarda allontanarsi con quel grosso aggeggio scuro che trascina con forza. Non si volterà, ne è certo. Camminerà sicuro. E lui lo guarderà scomparire. Sente un formicolio alla pancia. È un altro pezzo di sé che va via. Che trova il proprio posto nel mondo. Magari si telefoneranno una volta al mese, si racconteranno di come va la vita. O magari quell’abbraccio di pochi istanti fa resterà il ricordo più fedele a cui affidarsi per non dimenticarsi. Forse resterà il loro patto con la vita. Che poi le domande troncate si dimenticano, ma i corpi che si toccano si lasciano i segni. Si sono abbracciati da grandi. Da uomini. Sono spiagge assolate, adesso. Sono gente che si perde e si cerca nel mondo. Filippo sa che Fabio non cambierà. E gli va bene così. Non si cambia per accontentare gli altri. Si cambia per entrare nelle giacche e nei maglioni vecchi, non in quelli nuovi. Ché quelli nuovi sono fatti su misura. Quelli vecchi raccontano chi si è stati. Filippo ha scelto di cambiare per restare uguale. Per riconoscersi. Per sentire il suo cuore battere. Per aver voglia di correre da lei e gridarle che l’ama. Per chiedere un “per sempre” e credere che per loro sia possibile.

 

Filippo,
non pensare che io lo faccia perché non credo in te. È a me che credo poco, ai miei capelli bianchi, ai miei anni pesanti, alla mia storia ingombrante. Magari straccerò via queste parole. Magari ti chiederò di sederti al mio fianco, di esserci ancora. O forse non ci sarà possibile farlo. Per questo ti lascio questa nostra ultima chiacchierata. Per non arrivare impreparata alla mia o alla tua morte. Ti scrivo mentre ti ho di fronte. Mentre tu dormi beato e, di aprire gli occhi, non ci pensi affatto. E io ti parlo da un po’, ma non mi ascolti. Ti scrivo per lasciarti questo giorno tutto nostro, questo giorno che siamo ancora soli e ancora curiosi di invaderci gli spazi. Quelli senza peccato e senza rumori. Con i tuoi sguardi stupiti, le guance arrossate e i miei aneddoti un po’ sciupati e un po’ stanchi. Quando ti risveglierai, chiederai di me. Questo lo so già. E ti diranno che sono morta, che sono in Paradiso, che sono all’Inferno, che sono nella stanza accanto. Ti diranno cose che tu non vorrai sentirti dire. Ti diranno che venivo a trovarti spesso. Ma m’infastidisce l’idea che siano gli altri a raccontarci. Non sanno chi siamo noi. Non sanno dei nostri pomeriggi, quando mi disarmavi con le tue frasi sincere. E io m’inventavo parole nuove per sorprenderti. E io m’inventavo qualcosa di diverso per farti conoscere chi sono stata. Ecco, vedi, la vita in fondo è questo. È scegliere una persona con cui imparare ad essere noi stessi. Noi siamo fatti per pochi. Precisamente per una persona soltanto. Siamo fatti per asciugarci la pioggia di dosso con le parole di chi sa masticarci i discorsi e i pensieri. Di chi sa precederci. Di chi conosce i nostri occhi come tane di rifugiati. Di chi ha scelto di trovare scampo nello stesso rifugio. Non mi sono mai piaciuti i bilanci, raccontano la vecchiaia e la stanchezza di chi si conta gli errori, piuttosto che i giorni che gli restano. Io non faccio bilanci. Ma oggi voglio ricordarmi le cose belle. L’amore, le mie gonne lunghe, che mi coprivano le gambe, e lui che sapeva guardarmi al di là dei miei fantasmi. Ricordo quando gli ho detto che l’avrei amato per la vita e mi ha risposto che la vita dura troppo poco. Non ho saputo che dirgli. Aveva ragione. È morto ventenne e sognatore. E io sono morta con lui. Ho sbagliato a dirgli quella frase. Avrei dovuto dire che l’avrei amato per sempre. Non per quella misera e minuscola vita. Ho vissuto per anni nella rabbia dei peccatori, di chi non verrà mai perdonato. Ho parlato alla sua fotografia mille volte. E mille volte gli ho chiesto scusa. E gli ho ripetuto che l’avrei amato per l’eternità. È la cosa più bella che io abbia mai imparato. Essere in due, dico. Essere speciali. Essere occhi di facce diverse. Essere il perdono ai nostri stessi sbagli. L’ho imparato sulla mia pelle. L’ho visto con i miei occhi il tremore dei condannati. Dei bombardati. E anche quello degli innamorati, che non è diverso. Tesoro, impara che l’amore è tutto quello che abbiamo. Che non devi ascoltare chi non sa leggerti gli occhi e i pianti. Raccontati quello che io avrei voluto dirti. Siamo libri scoperti, io e te. Siamo sorrisi che trovano la forza di scoppiare al sole di un nuovo giorno. Ama. Ama chi troverai nel tuo stesso accampamento. Nel tuo stesso nido di rifugiato. Ama chi t’insegnerà a parlare la lingua dei grandi con i battiti del cuore di un neonato. Ricorda che chi dimentica l’amore, dimentica se stesso. Te l’ho detto. E te lo scrivo per segnartelo anche sulla pelle. Sulle spalle dell’uomo che sei diventato. Dell’uomo che non conoscerò. Ama la persona che non ti chiederà il permesso, quella che ti farà pensare a questa lettera. Quella che ti farà dire “La mia nonna lo sapeva già che sarebbe andata cosi”. Ti porto ovunque sarò. E ogni giorno ruberò per noi del tempo per parlarci. Per sorprenderci di quello che impareremo a dirci.

                                                                                                                                                                       La tua nonna

 

Si chiede che faccia farà quando lo vedrà, quando busserà alla sua porta, con una promessa da mantenere tra le mani. Quando le dirà che è qui per restare, se vorrà. Se avrà un posto per lui. Se, ogni mattina, ci saranno ancora briciole sul tavolo e caffè annacquati. Si chiede che faccia farà quando le dirà che su una cosa soltanto la sua nonna aveva torto: anche i grandi sanno mantenere le promesse. Quando le dirà che questi tempi di mezzo è meglio sopportarli insieme. Che dovranno piangere ad alta voce la rabbia sopportata. Che è tempo di chiedersi scusa per non essersi perdonati prima. Che scriveranno insieme un diario. Che la notte faranno l’amore per scambiarsi gli organi, il sudore e le braccia scoperte. Che la notte torneranno innocenti. Che rideranno di loro, dei giocattoli sparsi per casa, delle pareti rosa. Che ridipingeranno le pareti, che faranno nuove foto. Si chiede che faccia farà quando le dirà che sorrideranno all’obiettivo come al caffè pessimo che preparerà lei ogni mattina. Che le insegnerà a farlo meglio. Che non è mai troppo tardi per imparare.
Sono venuto a prendere Gaia. La porto a vedere i gabbiani, gliel’avevo promesso.
Ti stava aspettando.
Vieni anche tu con noi?
Si. Mi piace chi sa volare.
Perché sorridi?
Ti stavo aspettando anch’io, Filippo.

 

 

E poi cos’è successo?

 

Sono passati dieci anni da quell’estate, da quei gabbiani dipinti in un cielo azzurro e cordiale. Sono passati dieci anni da quella premessa di felicità che abbiamo accolto come fa la terra, quando conserva il suo seme per farne grano; come fa la vita, quando indossa il suo destino; come la felicità, quando abbraccia la sua malinconia di ritorno. Sono passati dieci anni da quel giorno che ho imparato a mantenere una promessa. È stata la nostra prima promessa, ma poi ne sono seguite altre.

Viviana vive ancora in Africa. L’ho rivista una volta soltanto, al funerale di suo padre, un uomo colto, un grande intenditore di vini e di donne. Le ho stretto la mano, mi ha chiesto Sei felice?, le ho risposto di Si, senza esitare. E tu?, le ho domandato. In Africa ho capito che io, felice, non lo ero mai stata prima. Ci siamo salutati con un abbraccio e non ci siamo detti A presto. Non ci siamo fatti alcuna promessa.

Sabrina, mia sorella, si è diplomata con il minimo dei voti, poi si è iscritta all’università, in Veterinaria, Perché amo gli animali. L’anno successivo, ha cambiato idea si è iscritta in Psicologia, Perché amo gli umani. Nel frattempo ha collezionato un paio di fidanzati. O più di un paio. Adesso fa l’estetista, si è sposata e ha un figlio che porta il nome di nostro padre. Ogni tanto passo a trovarla, compro un regalo a mio nipote e lei mi prepara un caffè, Fa schifo?, mi domanda ogni volta. È tornata bionda, come quando era bambina. Ed è bella da togliere il fiato, come sempre. Dopo la gravidanza, si è iscritta subito in palestra per tornare in forma in fretta.

Cecilia, mia madre, non si è più risposata. Fa la nonna a tempo pieno, ha ripreso a cotonarsi i ricci e ogni tanto ci invita a pranzo da lei. Prepara le lasagne al ragù, come quelle della mia nonna Angelina, ma non sono buone come le sue. Non gliel’ho mai detto, per non deluderla. Però abbiamo ripreso a parlarci. Anzi, a dire il vero, abbiamo iniziato, perché la vita ci aveva interrotti troppo presto e ci aveva restituiti a questo mondo quando credevo fosse troppo tardi. Non è mai tardi per dirsi Ti voglio bene. Non glielo dico spesso, ma so farlo. Questo mi basta. Questo ci basta.

Fabio vive a Tenerife, non è mai più tornato in Italia. Qualche volta ci sentiamo al telefono, mi dice Non so se questa sia la vita che volevo, ma ho smesso di scappare. Ha aperto una piccola attività commerciale, fa l’amore quando gli pare, si scolpisce il corpo perché A quarant’anni è un attimo che crolla tutto e passa ore al telefono con Gaia. Le vuole bene a suo modo, è padre a suo modo, ha imparato ad esserci a suo modo. Anita non lo odia, non l’hai mai odiato, nemmeno quando se n’è andato. Un giorno mi ha detto Eravamo in trappola, scappavamo da noi, sono felice sia andato via, perché io sarei rimasta con lui per non guardarmi alle spalle. O per non guardare in avanti. La vita è davanti.

Gaia adesso ha sedici anni ed è bella da far tremare il cielo, somiglia a sua madre. È un’adolescente, frequenta il Liceo Classico e inizia a chiedere il permesso per poter fare tardi la sera. Passiamo serate intere a parlare, è rimasta una curiosa e io amo saziare la sua curiosità e i suoi “Perché?” intatti. Non ha mai smesso di voler volare, me lo dice sempre. E, un’estate di qualche anno fa, l’ho portata a Berlino, abbiamo volato sul cielo d’Europa e abbiamo guardato le nuvole aprirsi al nostro passaggio. Voleremo ancora, gliel’ho promesso. Ma, lo ammetto, come un padre qualunque, sono geloso se mi racconta di qualcuno che le piace. A volte litiga con Anita, alla sua età è normale, mi dice Di’ a tua moglie che non ceno, Anita mi ripete Non so come fare con lei. E io sorrido, perché le amo di un amore che mi toglie il fiato e le parole. Ne invento ogni giorno di nuove, per sorprendere Gaia e per non deludere la promessa che ho fatto ad Anita, quella di insegnarle di nuovo a sorprendersi della vita e del suo destino puntuale.

Anita ha fatto pace con il suo passato. Ci è riuscita a fatica, io le sono rimasto accanto, ma mi sono fatto da parte quando ho capito che toccava a lei riprendere da dove l’aveva lasciato in sospeso. L’ho vista piangere sulla tomba di sua sorella. L’ho vista piangere per me, che ho chiesto scusa a mio padre. Una sera di qualche anno fa, abbiamo fatto un patto col destino, il nostro. Gli abbiamo detto che avremmo pianto ad alta voce se ci avesse promesso che ci saremmo sempre riconosciuti in lui. Io non so se il destino sia un momento esatto o una promessa soltanto, ma quella sera, che non sapevamo ancora che fosse incinta, io le ho detto Non ti lascerò più andare. Abbiamo deciso che ci sposeremo, un giorno o l’altro, forse a cinquant’anni o forse mai. Ma non ci importa, abbiamo imparato ad essere il nostro posto nel mondo. E questo ci basta.

E adesso tocca a me, Filippo. Ho compiuto quarant’anni, sono innamorato di Anita come il primo giorno che l’ho vista, ho rilevato il bar in cui lavoravo e l’ho ristrutturato. I clienti si complimentano con me, mi dicono Lei è sempre così gentile, e mi si gonfia il petto d’orgoglio perché amo il mio lavoro. Non era quello che m’immaginavo, ma la vita ha più fantasia di noi, l’ho imparato sulla mia pelle. A volte a fatica, a volte con un respiro di sollievo, ho imparato a mollare la presa. A godermi persino la malinconia, che è un assaggio di dolore. A godermi la felicità, non soltanto la mia. Ho imparato a godermi i ricordi, che sono il prezzo che paga chi è vivo, che sono il privilegio che ha chi è vivo. O chi ha imparato a vivere. Io e Anita abbiamo avuto un figlio, si chiama Libero e ha appena compiuto cinque anni. Adesso sono padre di due promesse, una di felicità, l’altra di libertà; e niente mi ripaga di ogni fatica più di questo. Quando li guardo, ringrazio la vita per avermi concesso una seconda occasione. Quando guardo Anita e i nostri figli, penso che io abbia avuto più di quanto potessi immaginare. La vita ha più fantasia di noi, per fortuna.

No, non mi sono dimenticato di lei. Parlo di Angelina, la mia nonna. A volte le parlo, mentre sfoglio le sue fotografie. So che è fiera di me. La immagino indaffarata a preparare le sue lasagne, con un grembiule colorato e le guance rosa. Le ho detto Io non basto a me stesso, ho imparato che nessuno basta a se stesso. Quel giorno ha piovuto, poi il tetto del mondo si è spalancato a un sole invadente. E lì, tra gli ingorghi del cielo, ho intravisto il nostro bene, che nemmeno il tempo, che ci è stato nemico, ha interrotto. So cosa mi avrebbe detto, se avesse potuto. Mi avrebbe detto, Si fa sempre in tempo ad imparare, non tradirti mai. E forse la vita è proprio questo, un destino che nasce da una cicatrice. È dalle crepe della pelle che inizia il futuro. È così che sono diventato un uomo.

 

 Ringraziamenti

 Grazie a mio padre e a mia madre, a loro devo tutto.
Grazie alla mia nonna, a lei ho rubato le parole, per scrivere questa storia, e il sapore di casa sua, per non sentirmi mai solo al mondo.
Grazie a tutta la mia famiglia. A mio zio Pietro. I simili si riconoscono, è vero.
Grazie a Stefania, a Tania, a Eloisa. Esistiamo per non perderci, è questa la nostra promessa.
Grazie a Cosimo, a Rebecca, a Federica. A quello che accade quando non te lo aspetti.
Grazie a Veronica per aver dato un volto a questo libro.
Grazie alle persone che ho perso, che erano al mio fianco quando ho scritto questo romanzo, quasi sei anni fa. Conservo con cura la felicità che abbiamo condiviso, non rinnego la malinconia di cui si veste, quando torna a ricordarmi quanto faticoso sia crescere. Chi ha fatto parte di me saprà riconoscersi in queste parole.
Grazie a te, che hai letto questo romanzo. Grazie per aver viaggiato al mio fianco.
Grazie alla vita, alla fatica che mi è costato diventare adulto, ma alla gratificazione di non essermi mai tradito.

Io basto a me stesso, ho detto, un giorno di qualche anno fa. Nessuno basta a se stesso, mi ha risposto Stefania. E io ero troppo presuntuoso per darle ragione. Ma ci ho pensato a lungo, ci ho pensato ogni giorno, fino al giorno in cui ho scritto questa storia. Nessuno basta a se stesso realmente. Impararlo, con la difficoltà che comporta, significa diventare grandi.

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