Il bambino che sono (stato)

Oggi compio ventotto anni e stamattina, appena sveglio, mi è tornato alla mente un vecchio filmino di un mio compleanno di parecchio tempo fa. Allora compivo quattro o cinque anni e qualcuno ha ripreso i momenti più importanti di quella giornata.

Su tutti, ne ricordo uno, quello in cui aprivo i regali ricevuti. Tra i pacchi da scartare, ce n’era uno grande almeno quanto me, quindi inevitabilmente è stato il primo che ho aperto: all’interno c’era un’enorme pista per le macchinine. Io con le macchine non ci giocavo, non mi piacevano, quindi ho mostrato la mia faccia delusa e l’ho scansato. Nel video si sente la voce di mia madre che ripete «Basi, com’è che si dice?», e io, impacciato, che rispondo «Grazie». Quel regalo è rimasto lì, aperto per metà, con mio padre che cercava di convincermi di quanto fosse bello e io che nemmeno stavo ad ascoltarlo. Io volevo cucinare, quello mi piaceva, ogni cosa, pure una tazzina da caffè, diventava una pentola dentro cui fingere di preparare qualcosa. E poi mi piaceva disegnare, scarabocchiare, iniziavo a scrivere le prime parole che sapevo.

Questo ero fin dai miei primi anni di vita e questo sono oggi. Quello che siamo, lo siamo da sempre. Poi la vita ci fa inciampare in qualche paura, ci stanca, ci mette alla prova, ci invecchia senza farci crescere e diventiamo altro. Quello che diventiamo è una somma, ma quello che siamo è dentro di noi, intrappolato da qualche parte.

Io devo dire grazie ai miei genitori, che non mi hanno mai chiesto di essere qualcosa che non sono, che non mi hanno mai comprato le macchinine, ma le matite colorate, che non mi hanno mai comprato le figurine dei calciatori, ma i fornelli di plastica per far finta di essere un cuoco. Devo ringraziarli perché quel bimbo di cinque anni esiste ancora, è una parte di me, sarebbe insano se gli somigliassi del tutto, ma sarebbe triste se me ne dimenticassi per sempre.

Come quel bambino, anche io amo cucinare e scarabocchiare, scrivere storie in cui metterci la faccia, con tutto quello che comporta. Come quel bambino, anche io faccio fatica a fingere che mi piaccia qualcosa che non mi piace. Quindi, ogni giorno di questa vita, io dirò grazie alla mia mamma e al mio papà, che mi hanno insegnato cos’è il rispetto e, soprattutto, perché senza rispetto non possa esserci amore. Grazie per avermi permesso di essere felice a modo mio, mai a modo loro. Per la pazienza, per il coraggio, per la devozione. Per tutte le cose che non si imparano sui libri, ma imitando chi ci sta di fronte. Oggi, che di anni ne compio ventotto, non potrei desiderare altro se non questo. E non desidero altro, perché so bene di essere fortunato.

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