Sono stato una spugna, ho assorbito tutto, la rabbia più della felicità, la frustrazione prima dell’allegria.
Quando sei una spugna, ti appesantisci, ti trascini, cambi forma. Non ti appartieni, sei di chi ti toglie il sonno e la fame. E poi succede che inizi a prevedere l’infelicità, a sentirne i sintomi prima che t’appartenga, a non saper distinguere quella degli altri dalla tua. Ad un certo punto, non fa più differenza che sia tua o degli altri, la porti addosso come un castigo, l’accogli come se fosse una colpa che ti spetta, che devi sopportare, che non devi giudicare mai.
Da che ho memoria, sono sempre stato una spugna, ho pianto senza che nessuno se ne accorgesse, ho avuto paura senza dirlo, ho provato rabbia senza saperle dare una faccia, un nome, una spiegazione. Ho imparato la leggerezza a trent’anni; a riconoscerla, quantomeno, e poi a chiederle scusa. A chiedermi scusa. Perché l’ho permesso, perché mi sono vergognato, perché ho portato sulle spalle le mancanze degli altri, i loro dolori, i torti che li hanno segnati, vinti, offesi.
Io ero un bambino, ma prima di ogni altra cosa ero la conseguenza delle loro storie mutilate, dei loro dolori non detti, dei silenzi che diventano pugni allo stomaco. Non lo sapevano, non potevo saperlo neanch’io. Ma oggi lo so. Non è tardi, anche se non sono più un bambino, anche se mia madre piange ancora a dirotto le cose che non ha detto e mio padre sopporta per abitudine. Ma io ho me e devo prendermi cura del bimbo che sono stato, dell’uomo che sono, del padre che sarò. Me ne sono accorto in tempo.
Sono stato una spugna, lo sono ancora, lo sarò sempre, ma adesso il mio bene non dipende più e soltanto dal loro, dipende da me. Me lo prometto ogni giorno.