Quando volevo essere normale anch’io e mi facevo la guerra

Basilio Petruzza

Sono molto severo con me stesso, più di quanto pensassi. Severo a tal punto da sentirmi inadeguato, da considerarmi persino inadatto alle mie ambizioni, a quello che voglio, a quello che sono.

Il mio più grande errore è stato quello di credere che i miei genitori mi volessero diverso, soltanto perché io mi volevo diverso. Pensavo «Che se ne fanno di uno come me», mentre ero io che non sapevo che farmene. E allora mi nascondevo, mi coprivo la faccia, gli umori, la rabbia, le pulsioni, tutto. Scrivevo libri anziché giocare a calcio, studiavo correnti letterarie anziché diventare un avvocato o un medico, parlavo a me stesso invece che a Dio, dicevo «Sono ateo» e mi sentivo giudicato come fossi un mitomane, volevo andarmene via e non capivo perché gli altri non ne sentissero il bisogno, odiavo il mio corpo, ma mangiavo senza ritegno, non avevo una fidanzata e mi sentivo un difetto.

Volevo essere normale, cazzo, normale, come tutti gli altri, come quelli che non sognano, oppure sognano cose possibili, volevo stare bene lì dov’ero, trovarmi un lavoro, una donna, una casa, fare un figlio, non chiedermi mai «Come stai?», oppure non darmi mai una risposta. E invece mi è toccata un’altra vita e l’ho giudicata fino allo sfinimento. E ho addossato tutta la colpa ai miei genitori, mi sono convinto che fossero loro a volermi normale.

Invece loro non volevano un bel niente, solo che fossi felice, senza dirmi come. Felice a mio modo, in qualunque modo, purché stessi bene. Ma io ho fatto la guerra a tutti, a loro, alle radici che non si staccano, al mare, ai sogni, ai libri, a chiunque. E oggi, che ho quasi trent’anni, una casa, un lavoro, una vita che tutto sommato mi piace, sto imparando a chiedermi scusa, a non giudicarmi per quello che non sono, ma a conoscere pienamente quello che sono.

Non sono un avvocato, non ho una donna, non l’avrò mai, non sono rimasto dove sono nato, non credo in Dio, mi tatuo la pelle, mangio senza rabbia, giudico meno che posso. Sto imparando a non farmi la guerra, a non volermi diverso, a non credere che i miei genitori mi vogliano diverso, perché non è così. Oggi non dico più «Se fossi stato un altro, sarebbe stato meglio», perché io sono questo, non sempre mi piaccio, ma mi riconosco.

È bello deporre le armi, respirare e non voler essere altro. Io sono questo e non mi permetterò mai più di offendermi. Mai più, me lo prometto.

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