Esistiamo per non perderci: il primo capitolo del romanzo

La copertina di Esistiamo per non perderci, il nuovo romanzo di Basilio Petruzza
                                                                   La copertina di Esistiamo per non perderci, il nuovo romanzo di Basilio Petruzza

Capitolo 1

 

Era il ventuno marzo, nell’aria c’erano ancora gli avanzi di un inverno lungo e faticoso. Io avevo le mani fredde e il cuore stanco, ogni goccia di pioggia che cadeva segnava il suo palpitare inquieto. Il futuro non era più un lutto da scansare. Non era la previsione di un dolore meschino, era la sua più consapevole accettazione. Al dolore si arriva sempre impreparati, non c’è pronostico che ne attenui il colpo, che ne impedisca l’urto. Quel giorno ho imparato che non esiste alcuna felicità che non abbia una malinconia di ritorno. L’ho compreso a fatica e in pochi istanti di consapevolezza, quella che mi era mancata fino a quel momento; il mestiere della vita non è stare al mondo, è farne parte. Io ero stato soltanto spettatore di mancanze insopportabili e di scelte che ho subito come torti. Quando è nata mia figlia, quando l’ho stretta tra le braccia per la prima volta, ho trovato il mio posto nel mondo. Non ho mai più vissuto nient’altro che valesse l’istante in cui ho capito che la mia vita non poteva più prescindere dalla sua. L’ho amata subito, era un amore che non conoscevo ancora. Ho capito in fretta quanto tempo avessi perso a fingermi appagato di una esistenza che non mi somigliava mai abbastanza. Luce pesava poco più di una folata di vento, mi sembrava di spezzarle le ossa, tanto era piccola. La tenevo a pochi centimetri dal mio respiro e trattenevo a fatica le mie lacrime ingorde, mi ricordavano il prezzo di quell’abbraccio, che era diventato in fretta la mia casa. Non ero più solo al mondo. Volevo che sentisse i miei pensieri, che farfugliavano parole monche e precari atti di coraggio. Mi dicevo La sua felicità è la mia promessa, non sapevo ancora cosa ci spettasse, ma sapevo già che non si prescinde da una ragione di vita e Luce era la mia.

Ero un padre come tanti, prestato a un destino da comporre, come si fa con i puzzle; giovane e impreparato ai corsi e ai ricorsi avversi della vita. Mentre era ancora accovacciata al mio petto, ho guardato attraverso il vetro sporco di una finestra di quell’ospedale. Il traffico di Roma si era fatto silenzioso e il temporale si era spento per pochi minuti soltanto. È così che Luce ha conosciuto sua madre, spiando il cielo che l’aveva appena accolta. Abbiamo detto il nostro primo addio insieme. Era il primo anche per me, che di abbandoni ne avevo già subiti, ma mai con la crudeltà dell’eterno, che non restituisce indietro nulla, se non la snervante memoria del tempo trascorso. Ho pianto senza vergognarmi, ho singhiozzato, poi ho sentito il respiro fermarsi in gola. Barbara stava attraversando la vita fino ad abitare un altro cielo, di cui non ci era dato sapere nulla. Conoscevamo soltanto la nostalgia di ogni ultima volta che le era toccato vivere. E anche un po’ di rabbia, perché sapevamo bene che la vita non ci avrebbe concesso un altro destino. Ne avevamo parlato a lungo, avevamo cercato insieme un rimedio, o perlomeno un conforto, a quell’addio che presto o tardi ci saremmo ritrovati ad affrontare. Così abbiamo pianto e riso come pazzi, abbiamo scavalcato i confini del possibile, deriso la morte e offeso la paura di morire. Poi, però, la vita ci ha rimesso al nostro posto e ha deciso che l’inizio e la fine dovessero coincidere. E noi non abbiamo potuto fare altro che assecondarla. Abbiamo mortificato la furia dei vent’anni e la sua invadente eco, siamo rimasti nei nostri panni, siamo rimasti il nostro solo approdo sicuro.

Pochi giorni prima che Luce nascesse, Barbara mi aveva detto Non voglio morire. E io ho sopportato quelle parole come fossero una condanna, ma non ho lasciato che subisse il mio disprezzo per il tempo che c’era stato tolto. Ho stretto le sue mani fredde e sciupate, non ho detto una parola, sapevo che non voleva che parlassi. A starcene in silenzio, abbiamo imparato col tempo. Noi eravamo bravi a parlare, qualche volta a farneticare, quasi mai a disattendere le nostre parole migliori. Quelle sapevamo accoglierle con cura e conservarle con rispetto. Perciò, quel ventuno marzo, mentre le mie braccia diventavano la casa di nostra figlia, io guardavo l’aria sfatta del mattino e mi abituavo a fatica a non sentire più la sua voce. Il cielo si è richiuso in fretta, pochi minuti dopo è ripreso a piovere, lei era già dall’altra parte del mondo e io ero padre di una promessa che non avrei tradito. Perché glielo avevo giurato. A lei a e me stesso, Ogni storia ha la sua luce, lei è la nostra, sapremo meritarcela. Si è addormentata addosso a me, è stata la prima volta. Che fossimo il nostro posto, l’ho capito in quel momento, proprio quando credevo che non ne avrei più avuto uno.

Una mattina, qualche giorno dopo, ho portato Luce a casa. Ho aperto la porta a fatica, la tenevo in braccio e mi trascinavo dietro quello che mi era rimasto di Barbara, gli ultimi mesi trascorsi in quell’ospedale. Quel piccolo appartamento alla periferia di Roma mi sembrava improvvisamente troppo grande. Certamente lo era, per me e mia figlia, che dovevamo imparare ad abitare una vita che avevo avuto il tempo di immaginare, ma che sembrava più crudele di quanto avessi pensato. Perché sentivo il rimbombo prepotente dei miei passi indecisi, dei vagiti di Luce, della voce di Barbara, che mi ripeteva Innaffia la mia mimosa, mentre sarò via. La sua mimosa era rigogliosa, poggiata sul davanzale della cucina. Lei non aveva più potuto vederla, ma io gliene parlavo, le dicevo che l’annaffiavo ogni mattina. Qualche volta me ne dimenticavo, ridevamo insieme. Quelle risate avevano il retrogusto amaro di una fine, ma noi fingevamo che non ce ne importasse nulla, perché, a intermittenza, conoscevamo persino il coraggio e la sua ostinazione. Poi arrivavano giorni di magra, la nostra fragile audacia veniva meno, come una promessa disattesa, e a noi restava il disappunto di sentirci inadeguati. È stato in uno di quei giorni che mi ha chiesto di lasciarla sola. Ha voluto che le portassi un foglio e una penna. Doveva parlare a quel seme piantato nel suo stomaco. Io mi sono fatto da parte, ho camminato lungo quel corridoio e ho aspettato che riempisse quella carta bianca prima di tornare da lei. Conservala tu, mi ha detto dopo. Ho nascosto quella busta sigillata nel primo cassetto del suo comodino, tra i libri che aveva letto e tra quelli che non aveva fatto in tempo, tra vecchi ritagli di giornale. L’ho messa in fondo, non l’ho mai aperta, erano le parole di una mamma a sua figlia, io non ne facevo parte. Io sono già sua madre, lei è già mia figlia, piangeva, mentre metteva tra le mie mani le parole che avrei dovuto dare a Luce.
Quella mattina, mentre lei succhiava il suo latte e muoveva i piedi, ho sentito bussare alla nostra porta. Mi sono chiesto chi potesse essere. L’ho stretta tra le braccia, mi avevano insegnato come fare, come prendermi cura di lei. Non si impara ad essere essenziali per qualcuno. Non lo sapevo ancora, ma l’ho capito quando siamo diventati le nostre abitudini, quando i nostri odori si sono mischiati, quando ho riconosciuto nel suo mento la stessa sporgenza di Barbara. Ho camminato verso il corridoio, ho chiesto chi fosse. Mi ha detto Sono io. Ho aperto, non abbiamo detto granché, lui mi ha sorriso, io mi sono accertato che fosse da solo.
«Come stai, Marcello?», mi ha domandato papà.
«Sono vivo», gli ho detto, «Io sono vivo».
E l’ho lasciato entrare.

 

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