Musica in tv: rinascita o sconfitta definitiva?

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Prima di parlare dello strano e quanto mai attuale connubio musica/televisione, è necessario fare una premessa fondamentale: la situazione in cui versa attualmente la discografia italiana è, senza mezzi termini, disastrosa e le speranze di una concreta ripresa sembrano vane e improbabili. I nostri artisti vendono sempre meno dischi e, con internet, il fenomeno dei download illegali si è intensificato, negli anni, fino ad arrivare ad un punto di non ritorno. Sembra mancare, in Italia, una vera e propria cultura del disco acquistato legalmente, nei negozi fisici e nelle numerose piattaforme digitali (su tutte, iTunes, che peraltro offre brani a 0,99 cent e interi dischi a prezzi bassi e accessibili a chiunque).
In questo contesto scoraggiante, pongono le basi i nuovi spazi televisivi dedicati alla musica, tanti e diversi contenitori che fanno capo ad un solo termine: talent show. Questa definizione inglese, ormai in uso anche nel nostro linguaggio quotidiano, la dice lunga sulla piega che si è scelto di dare alla musica in televisione: un po’ talento, un po’ spettacolo. Come a voler addolcire una compressa per mandarla giù tutta d’un fiato o, più concretamente, come a voler invogliare il pubblico a tornare ad interessarsi alla musica, ponendo al centro dell’attenzione il personaggio, qualche volta la sua caricatura e, più spesso, le sue debolezze. Tutto è lecito e tutto è concesso in questi programmi che fanno, del contorno, il fulcro; e, della musica, non più la protagonista annunciata ma una piacevole comparsa.

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Da qui inizia a farsi spazio una spaccatura profonda: da una parte i fieri sostenitori dei talent show e dei loro artisti, dall’altra gli intransigenti detrattori che snobbano e schivano non solo i programmi in questione, ma anche i cantanti che ne vengono fuori. Il più delle volte e ormai di frequente, si rischia però di cadere in un luogo comune limitante e approssimativo: la musica dei talent è scadente e i cantanti sono voci da piano bar, non artisti. È davvero così? È giusto mettere addosso delle etichette così vincolanti a chi, per realizzare il proprio sogno, passa attraverso la televisione? In realtà la questione è ben più ampia ed articolata di quanto si possa pensare; attaccare, spesso anche aspramente, i potenziali cantanti è come costruire il tetto di una casa senza aver posto le basi: sbagliato, contraddittorio e superficiale. È la crisi discografica il motivo di questa nuova tendenza a mescolare l’arte con l’intrattenimento. Parte tutto dalla volontà di riportare nelle case della gente, anche in modo inusuale, la musica. E così l’attenzione del pubblico, sempre più distratto, pragmatico e di fretta, può concentrarsi sullo scontro, sul diverbio, su storie di vita straordinarie, su casi di dolore e abbandono, su realtà da sogno che poco o nulla hanno a che fare con la propria quotidianità. E le canzoni, in questo meccanismo inconsueto, accompagnano, senza eccedere, lo spettacolo. La gente sembra non aver tempo e voglia di fermarsi a guardare un programma in cui solo e soltanto la musica fa da padrona. Ha bisogno di essere spronata ad interessarsene, ha bisogno di immergersi in una realtà in cui confondersi e, qualche volta, ritrovarsi. E così nascono i “cantanti da talent”, ragazzi ingenui e ignari, che si ritrovano in un mondo più grande e pericoloso di quanto possano immaginare. Quello che succede dopo è davanti agli occhi di tutti, se si sceglie di accorgersene: in poche settimane, senza un adeguato lavoro, pubblicano un primo disco, le etichette discografiche investono soldi e tempo, vengono pubblicizzati con qualsiasi mezzo a disposizione. Ne risente il prodotto, che molte volte è impersonale e di dubbio gusto: si tratta di brani preconfezionati e pronti all’uso, come i surgelati del supermercato, che può prepararli un avvocato in carriera o una casalinga di fretta e, una volta serviti in tavola, nessuno saprà riconoscere chi sia stato a cucinarli. Passati i mesi di maggiore visibilità, la maggior parte di questi giovani cantanti viene sostituita dai nuovi arrivati, che hanno un vissuto più interessante, un carattere più d’impatto e buone speranze di riuscita.

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Dove sta, dunque e in definitiva, il problema? Nell’atteggiamento superficiale della gente, che sembra non riuscire ad impegnarsi nella conoscenza di un musicista, che lo sostituisce con disattenzione e negligenza. Nel lavoro meccanico e interessato delle case discografiche, che non puntano più sull’arte ma sul guadagno facile e sicuro, a discapito di una crescita lenta e duratura, ma volta a fare, di tanti giovani, il futuro della nostra musica. È il sistema ad essere marcio, non le speranze non ancora corrotte di chi sa crederci. Non il talent in sé, ma il cattivo uso che se ne fa. Tutto è sempre e irrimediabilmente legato all’atteggiamento ambiguo dell’essere umano, che con noncuranza si accosta alla realtà che lo circonda con giudizi frettolosi e pregiudizi restrittivi. E la conseguenza sarà sempre e inevitabilmente la stessa: da una parte, una fetta di pubblico continuerà a seguire questi programmi e ad affezionarsi ogni volta a gente diversa, divinizzandola prima e, inconsapevolmente ma non troppo, massacrandola dopo; dall’altra, un’altra consistente fetta sceglierà preventivamente di non conoscerla affatto, perdendosi, in alcuni casi, la possibilità di ascoltare artisti di grande valore e talento.
Che sia un fallimento o una ripresa, non ci è dato saperlo. È tutto opinabile ed assai relativo. L’unica certezza è che la musica chiede una speranza concreta e gliela si può concedere solo scegliendo di conoscere senza dar credito a luoghi comuni farciti di verità inflazionate. Abbattere i pregiudizi e ascoltare, è il punto di partenza necessario per non farla morire. E comprare dischi originali è un modo concreto e reale di dire la propria.

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